30 anni di Sabra e Shatila

Immagine di bambini assassinati a Sabra e Shatila
Bimbi di Sabra e Shatila

Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.

Così si legge in un articolo pubblicato ieri da Globalist.it di Robert Fisk sulla strage di 30 anni fa nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila.

Una strage, un crimine contro l’umanità, di cui è responsabile Israele e Ariel Sharon, a quel tempo ministro della difesa di Israele, che fu l’architetto dell’invasione del Libano, ma per cui nessuno, ad oggi, è stato incriminato e giudicato.

Quando sento parlare di “giustizia internazionale” non posso fare a meno aprire, sul mio pc, la cartella “Immagini” e di andare in quella che si chiama “Sabra e Shatila”, per rinfrescarmi la memoria.

Facciamolo insieme:

L’eredità di Vittorio

Una foto di Vittorio Arrigoni
Vik

 

Vittorio Arrigoni, Vik, @vikutopia è stato assassinato ieri a Gaza.

Non conoscevo Vik, se non attraverso i suoi post su guerrillaradio, i suoi tweet e il suo profilo su Facebook. Ma nonostante tutto, quando ho saputo della sua morte, e per tutto il giorno, l’angoscia e la tristezza che ho provato è stata la stessa che si prova per la morte di un fratello, di un amico, di qualcuno con cui condividi, anche se da lontano, un percorso molto simile.

Vittorio conduceva a Gaza un lavoro così prezioso che solo ora, con la sua mancanza, si riuscirà a comprendere fino in fondo. Lui è riuscito, grazie alla sua intelligenza, alla sua onestà e alla sua umanità, a comunicare dalla Palestina, da dentro Gaza, quelle notizie che altrimenti i media mainstream non sarebbero mai riusciti a darci, anche se l’avessero voluto.

Leggo oggi sul Manifesto l’articolo di Manolo in ricordo di Vittorio; parole di dolore per la perdita di un fratello, ma anche parole consapevoli di quel che non c’è più, di prezioso e fondamentale, per la lotta del popolo Palestinese: una voce che rompesse l’embargo internazionale, che riuscisse a comunicare fuori quel che veramente sta succedendo in Palestina, ed a Gaza in particolare.

Le armi di Vittorio erano il suo computer, la sua telecamerina, la sua voce, la sua sensibilità, la sua intelligenza vivace, il suo corpo.

L’utilizzo che ne faceva lo rendevano il prototipo di mediattivista. Un umano comunicante, un pazzo di giustizia, di libertà. Instancabile nella sua continua opera di tessitura sociale. Una persona capace di riverberare i sentimenti di un popolo intero, rendendoli comprensibili a chi a quel popolo era estraneo […]. Non era un giornalista, e nemmeno ci teneva ad esserlo. Era quel raro esempio di essere umano che impugna le sue armi convenzionali per combattere una battaglia non violenta, anche per questo più efficace.

In queste righe Manolo descrive perfettamente non solo la meraviglia dell’uomo Arrigoni; descrive anche, perfettamente, uno “strumento” efficacissimo di comunicazione politica, di in/formazione, che oggi è possibile a tutt@, grazie atecnologie che abbiamo a disposizione, e che ci permette, se decidiamo di impugnarli, di bypassare l’informazione mainstream, per nulla interessata a dirci cosa succede effettivamente nel mondo.

Nessuno di noi può pensare di sostituire Vik, e non penso che a nessuno gli sia manco passato per l’anticamera del cervello. Ma dobbiamo trovare il modo, tutti noi che abbiamo a cuore la lotta del popolo palestinese – ma anche quello del popolo sahrawi, libico, egiziano, chapaneco, birmano, cinese, e quindi di tutto il mondo – dobbiamo trovare il modo di non sprecare il lavoro, l’insegnamento, il testimone che Vik ci ha lasciato.

Se non vogliamo che la sua morte sia una delle tante, se non vogliamo che sia solo retorica il nostro pianto, se vogliamo che veramente la morte di un Partigiano significhi la nascita di altri cento, allora dobbiamo prenderci sulle spalle – collettivamente – la sua eredità.

Dice ancora Manolo:

Con la sua scomparsa si apre una voragine che contribuisce a ripristinare la cappa di indifferenza che aleggia sulla Striscia di Gaza, martoriata da anni di assedio e di menzogne. E’ impossibile colmare quel vuoto, ma farlo diventa subito una responsabilità collettiva. La sua morte è il suo estremo richiamo a restare umani. E per farlo ci vogliono gesti.

Il nostro compito, collettivo.

Restiamo umani.