Torna il mio intellettuale preferito (anche perché è l’ultimo che veda all’orizzonte, sarò miope…).
Torna con uno dei suoi soliti testi che vanno letti e riletti qualche volta, per assorbire tutto quello che si portano dietro. Testi che sono da spunto per l’azione antagonista, antisistemica, di quel che resta del Movimento, o forse per rilanciarne uno nuovo, senza i cocci e i reperti del passato (nessuno escluso). Chi lo sa.
Magari partendo proprio da chi ospita questo bel intervento, il movimento dei precari e delle precarie. Cioè noi.
Buona lettura!
http://www.precaria.org/come-si-fa-a-difendere-la-democrazia-di-sergio-bologna.html
Come si fa a difendere la democrazia?
La domanda avrebbe dovuto essere più difficile. Come si fa a
difendere (ormai) la dignità del lavoro? Il nodo infatti sta tutto qui.
La storia della democrazia occidentale ha due passaggi: quello
delle libertà (di opinione, di associazione, di religione ecc. ecc.) e
quello della sicurezza sociale. Il primo viene dalla Rivoluzione
francese, il secondo dall’affermazione del movimento operaio e
sindacale. Il primo è costato un sacco di morti, il secondo forse molto
di più, ma in genere morti silenziose. Milioni di donne e di uomini
che hanno rischiato la vita, la miseria, la galera, il licenziamento
per essere rispettati sul luogo di lavoro ed avere dallo stato un
sistema previdenziale e assistenziale, il cosiddetto “modello sociale
europeo”. L’azione quotidiana di quei milioni di persone ha creato case
del popolo, cooperative, scuole professionali, asili nido, ambulatori –
insomma una specie di società parallela che viveva “separata” e con
minimi livelli di autosufficienza dalla società in generale. Ha posto
per prima il problema dell’eguaglianza femminile, ha combattuto
l’alcolismo, ha guardato con rispetto ed interesse agli altri popoli
(che conosceva, perché era costretta ad emigrare), ha condotto la lotta
antifascista. Ed ha capito una cosa fondamentale che la cultura
borghese non vuole capire: un diritto vale quando esiste nei fatti non
quando è scritto sulla carta di una qualche costituzione. E’ una
diversa concezione della democrazia, quella sostanziale contrapposta
all’idea formale di democrazia. Di questa parlo io. Se non ci mettiamo
d’accordo sui termini, è difficile capirsi. Nell’Italia del secondo
dopoguerra questa forma di democrazia era forse la più solida d’Europa,
grazie anche ai comunisti, ai socialisti, ai cattolici di base, a
tutti coloro che avevano imparato queste cose sul luogo di lavoro.
Questo immenso patrimonio è andato disperso, in parte anche per
scelte politiche precise: si pensi al XIX Congresso del PCI, artefice
l’attuale Presidente della Repubblica, più ancora che Occhetto, che ha
buttato a mare come roba vecchia il partito di massa per scegliere il
toyotista lean party (“è come se si fossero licenziati su due piedi
800.000 militanti”, disse una volta una compagna che aveva fatto la
Resistenza). Si pensi all’ondata di privatizzazioni, che hanno
consegnato nelle mani di qualche avventuriero della finanza enormi
patrimoni economici pubblici (e l’operazione “Mani Pulite” che avrebbe
dovuto colpire la corruzione, in realtà ha dato una mano a questo
trasferimento di ricchezza dal pubblico al privato). Ma questo è il
meno, dopo tutto, il partito di massa era formula vecchia e l’economia
pubblica era saccheggiata dai partiti di maggioranza.
Là dove la democrazia sostanziale italiana muore, là dove c’è il vero
passaggio di civiltà, la vera tragica svolta epocale, è nella
flessibilizzazione del lavoro. E’ lì che vengono erosi nei fatti diritti
che sulla carta esistono ancora. Le imprese si frammentano e così si
arriva ad oggi dove il 52% della forza lavoro dipendente non gode delle
tutele dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori perché il numero degli
addetti è inferiore alla soglia dei 15. Gli accordi sindacali del
luglio 1993 garantiscono tregua salariale e di fatto spengono le lotte
operaie (chi è andato in queste settimane a parlare con gli operai
delle fabbriche occupate o presidiate dai lavoratori, ha trovato
fabbriche che non scioperavano da 16 anni). E’ cambiata la struttura
tecnica dell’impresa, lo stile di management, il lavoro sempre più
precario, l’impossibilità dei giovani d’inserirsisi potrebbe continuare all’infinito (la
globalizzazione ecc. ecc.). Tutte cose considerate “minori”, che non
fanno notizia, quotidiane, ma è qui che la democrazia sostanziale muore e
attraverso le quali si perdono anche libertà civili (di recente ho
scoperto che esistono contratti che prevedono il licenziamento per il
dipendente che “confessa” a un suo collega quanto percepisce di
salario). E’ sul rapporto di lavoro che l’uomo perde la sua dignità,
quando si accetta come normale e persino lodevole che giovani,
soprattutto laureati, lavorino per mesi gratuitamente in cosiddetti
tirocinii con la speranza di essere assunti (ma perché mai se ci sono
altri mille pronti a prendere il loro posto gratis?). E’ qui che muore
la democrazia, è qui che sta morendo il diritto di sciopero, anche se
nessuno lo ha tolto dalla carta costituzionale. Muore nei fatti. Ma su
questo si tace, lo si considera un’evoluzione fisiologica dei modi di
produzione. L’attenzione è posta su intercettazioni, conflitti
d’interesse, mafie, il protagonista della società, la grande speranza è
il magistrato, figura che assume il ruolo del demiurgo, del liberatore
dal Male. Ne risulta distorta la stessa funzione della magistratura,
prevista dai principi della democrazia borghese. La magistratura non
deve sostituirsi all’azione politica. Ma la politica, la vera politica, è
quella praticata dalla società, non dai partiti, dai milioni di uomini
e di donne che giorno per giorno cercano di rendere più civile
l’ambiente in cui vivono, più giusta la relazione tra persone, di
quelli che non fanno alcun atto di eroismo né alcun gesto da prima
pagina. Come può la magistratura dare un supporto a queste mille azioni
quotidiane? Su questo microcosmo è impotente (e forse disinteressata).
Molte di queste pratiche sociali – unico baluardo di una democrazia
sostanziale – sono note. Ma rimane ancora da capire come si fa a
rovesciare il degrado dei rapporti di lavoro. Gli stessi giuslavoristi
affermano che non è più questione di produzione legislativa ma di
contrattazione. Come si fa a inculcare nei giovani la volontà di
ribellarsi a questo, come si fa a trovare nuove tecniche di autotutela e
di negoziato con le gerarchie aziendali? Queste sono le domande
centrali. Ci sono riusciti operaie e operai analfabeti, che vivevano in
condizioni miserabili, ci hanno messo mezzo secolo (dalle prime
società di mutuo soccorso ai primi sindacati industriali). Perché non
dovrebbero riuscirci milioni di giovani scolarizzati, overeducated? Chi
non è d’accordo con il mio piccolo sfogo forse ha un’idea della
democrazia del tutto diversa dalla mia, ritiene più urgenti certe
battaglie di altre, considera “un male minore” quelle che per me sono
vere tragedie della civiltà. Si tratta di punti di vista, ma come
faccio a rinunciare al mio, se su quello ho costruito 50 anni di
presenza nella società e di comportamento privato?
Sergio Bologna