Quale nuova composizione di classe? Un documento di Sergio Bologna

Sarà la mia fissa, ma se c'è qualcuno di cui leggo tutto quello che trovo, senza mai pentirmente, questi è indiscutibilmente Sergio Bologna, il grande "vecchio" dell'operaismo italiota. Uno dei pochi che riesce ad essere sempre sul pezzo, nonostante i suoi *anta anni, o forse proprio per questo 🙂

In occasione della MayDay 2007 il Nostro ha pensato bene di pubblicare un saggio su come affrontare, dal punto di vista della trasformazione e di chi potrebbe attuarla, la fase attuale.

Come al solito, ma c'è da dirlo, una delle cose più brillanti che si possano leggere di questi tempi.

Sotto l'incipit. 

Il movimento contro i rapporti di lavoro precari, contro l’insicurezza, per avere diritti uguali per tutti i cittadini, sembra riesca soltanto a manifestare disagio, a mobilitare protesta, ma non a cambiare lo stato delle cose. Troppi sono gli ostacoli che impediscono di fare passi avanti. L’attuale Governo e la politica del suo Ministero del Lavoro è uno di questi, ma non meno insidiosi sembrano gli ostacoli interni al movimento stesso. Il pericolo che un’intera generazione sia condannata ad un’esistenza da cittadini di serie B è reale. Nei media e nei discorsi ufficiali si diffondono inviti alla rassegnazione dicendo che questa condizione è generalizzata a tutto l’Occidente capitalistico. In realtà se questo è vero – ed è purtroppo vero – costituisce una ragione di più per essere preoccupati e cercar di reagire.


Avere coscienza di sé come classe


E’ opinione abbastanza condivisa che il fordismo ha prodotto l’operaio massa. In base a questa percezione si sono costruiti i ragionamenti politici che hanno dato un contenuto ai movimenti sociali degli Anni 60 e 70. Non è altrettanto chiaro, o comunque altrettanto condiviso, il ragionamento sulla classe prodotta dal postfordismo. Molti tentativi di definire i contorni di questa classe sono stati fatti e sono in corso, non ultimo quello di definirla come “non classe”. Ma finché non si riesce a trovarne un profilo adeguato, che abbia la stessa chiarezza, schematicità, evidenza e capacità di comunicazione che ha avuto il termine di “operaio massa”, ogni sforzo per farne un soggetto politico con cui Governo e capitale debbono confrontarsi sarà inutile.


Ricomporre un sistema di pensiero


Quello che viene definito “operaismo italiano” è stato forse l’unico sistema di pensiero che ha cercato di mettere ordine nella percezione dei rapporti di classe del dopoguerra. Ripercorriamo per un momento la strada che ha battuto per arrivare a definire il soggetto di classe del fordismo, l’operaio massa. Il punto di partenza è stato lo sforzo di comprensione dei cambiamenti tecnologici e organizzativi del capitalismo. Come le macchine ed il loro uso trasformavano, plasmavano gli uomini che ricevevano un salario per azionarle e controllarle. Primo passo, capire le macchine e la loro capacità di mutamento genetico dei comportamenti umani. Secondo passo, capire il governo politico di questo processo, trovare coerenza tra azioni di governo, amministrazione pubblica e trasformazioni tecnologico-organizzative del lavoro salariato. Terzo passo: riconosciuti i lucchetti che ti serrano le mani, imparare a farli saltare uno a uno. Un percorso analogo oggi è impraticabile? Proviamo a imitarne la sequenza, chissà che da qualche parte non ci porti. Primo passo: uso capitalistico delle macchine.


Il genere umano adatto al computer


Assumiamo che la tecnologia-simbolo del fordismo sia la catena di montaggio e la tecnologia-simbolo del postfordismo il computer. Richiedono due razze diverse di forza lavoro. La prima una forza lavoro che, anche se scolarizzata, deve soltanto adattare i propri bioritmi a quelli della macchina, esserne una funzione, un componente. La seconda una forza lavoro che, anche se non scolarizzata, deve possedere competenze, conoscenze e saper interagire con la macchina. Nel fordismo abbiamo una potenza tecnologica che soggioga e disciplina la forza lavoro, nel postfordismo uno strumento tecnologico che dialoga con la forza lavoro, nel fordismo l’uomo – per paradosso – ridotto a scimmia, nel postfordismo l’uomo tutto cervello. La liberazione nel primo caso passava per il rovesciamento dei rapporti con la macchina (il ritmo lo decido io e non la catena, il cottimo individuale va abolito, la tecnologia non va accettata come tale ma modificata, prima la salute e poi la produttività, i salari tendenzialmente uguali per tutti ecc. ecc.). Erano i primissimi passi per riacquistare dignità umana e diventare soggetto politico. Non è lo stesso percorso che si presenta nel postfordismo, il computer è – può essere – liberazione. I percorsi sono molto più complessi e per individuarli dobbiamo abbandonare l’operaismo. Anzi, può diventare un ostacolo. Ed in effetti oggi il revival dell’operaismo, che avviene in coincidenza con il quarantennale della pubblicazione dell’opera di Mario Tronti “Operai e capitale”, avviene in un contesto che rafforza le posizioni di coloro che sono i principali avversari di una liberazione del precariato, come cercheremo di dimostrare. Noi dobbiamo difendere lo spirito, la logica dell’operaismo originario, non la moda operaista di oggi.


I mutamenti genetici indotti dal postfordismo


Utilizziamo il termine “mutamento genetico” in senso figurato ma non troppo. I fenomeni che inducono un mutamento dei comportamenti sociali, delle abitudini e degli stili di vita hanno un’importanza che possiamo considerare maggiore di quella che potrebbe ottenersi con mutamenti indotti nell’organismo umano. Il primo grande salto che compie il postfordismo rispetto al fordismo è l’attribuzione di valore al capitale umano, alle conoscenze/competenze. Questo comporta una prima “specifica di cittadinanza”, intendendo per specifica i requisiti richiesti per essere cittadino in un mercato del lavoro postfordista. Sono requisiti costosi, perché significano un investimento consistente – in termini di tempo e di denaro – nella cosiddetta formazione. Per accedere al mercato del lavoro occorre essere dotati di un consistente bagaglio formativo, in modo da attestare frequenze da inserire in quei curricula che si allungano in proporzione agli anni di precariato. Anya Kamenetz è una giornalista di 25 anni del Village Voice ed ha appena pubblicato un libro, Generation Debt, dal sottotitolo “Perché oggi è terribile essere giovani”. L’argomentazione è molto semplice: la stragrande maggioranza dei giovani americani esce dagli studi con tanti debiti sul collo (contratti per pagarsi gli studi) che ne restano condizionati al momento di entrare nel mercato del lavoro, e rendono le condizioni lavorative – che si deteriorano sempre di più – ancora più dure. Insomma sono già fottuti prima di cominciare. Questa non è ancora la situazione in Europa ma ci stiamo arrivando. La “specifica di cittadinanza” richiesta dal postfordismo ha prodotto un gonfiamento abnorme e mostruoso della cosiddetta “offerta formativa”; centinaia di scuole, di corsi, di master che ci assordano con le loro proposte, sono oggi appannaggio del mercato privato, ma presto sarà la scuola pubblica a presentarsi come un brand, a fare marketing, come stanno già facendo alcune università italiane, che si strappano gli studenti a forza di promesse di corsi brevi o di corsi facili, talune abbassando i prezzi, altre alzandoli in modo da creare nella clientela l’effetto “lusso” (“se costa tanto vuol dire che è buona”). E’ il postfordismo che ha inventato il lifelong learning, quel micidiale meccanismo per il quale il giovane si convince che il suo precariato non dipende da rapporti di forza tra le classi ma dalla sua insufficiente formazione, quindi più rimane disoccupato o sottoccupato e più studia. Non è un caso che le forze maggiormente responsabili della precarizzazione di massa richiedano a gran voce investimenti nella formazione. I Sindacati hanno beneficiato in questi ultimi vent’anni di finanziamenti europei di notevole entità per la formazione, risorse con cui avrebbero potuto essere finanziati ammortizzatori sociali mirati. Risultato zero. In parallelo a questa frenesia del mercato della formazione si è andata svolgendo l’involuzione del sistema scolastico, mentre l’Università ha continuato ad essere governata e organizzata in base alle esigenze dei docenti e non in base ai bisogni degli studenti. Pertanto il postfordismo o la cosiddetta knowledge economy hanno prodotto la superfetazione di un mercato della formazione pubblica e privata la cui sola funzione ormai è quella di produrre un essere umano che è un precario prima ancora di entrare nel mercato del lavoro e che solo per eufemismo viene chiamato “uomo flessibile”. Il postfordismo in tal modo ha trasformato una condizione lavorativa – che per sua definizione è modificabile in base a un rapporto di forza – in una caratteristica genetica. Il precariato non deve nascere solo al momento dell’incontro con il mercato del lavoro, deve essere costitutivo della mentalità della persona, deve essere inoculato nella persona come percezione del sé.

 

Il resto lo potete leggere, via web, qui.

2 risposte a “Quale nuova composizione di classe? Un documento di Sergio Bologna”

  1. ciao
    siamo un collettivo di lavoratori e precari autorganizzati……vorremo dei contatti per sergio bologna….visto che tutti postano cose su di lui ma non si riesce a farci una chiacchierata…il sito ce l’ahi la mail pure se ci dai una mano siamo felici..un saluto…laut civitavecchia

  2. ciao capa
    sappi che ogni tanto passo da qua, e t i penso 🙂
    la cosa interessante di questo articolo è che sta girando un sacco, e genti svariate lo inoltrano e propongoo di discuterlo.
    questo è
    un abbraccio

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