Genova 2001 – riflessioni e vecchi tic

Copertina del libro "Millenium Bug"

Sono vent’anni proprio in questi giorni, e l’anniversario meriterebbe una riflessione, magari collettiva, orizzontale, franca, in modo da far riemergere un dibattito che è stato stroncato dalle pallottole di Piazza Alimonda, dalle torture della Diaz e di Bolzaneto e poi sotterrato con le “Torri Gemelle”.

Noi ci abbiamo provato, e con noi intendo quell@ che allora provarono a fare “Un altro mondo possibile”, non nell’ottica del “Sol dell’Avvenire”, ma  qui e subito, praticando l’orizzontalità nel quotidiano, con gli hackmeeting, gli hacklab, Autistici/Inventati e  Indymedia.

I primi a muoversi sono stat@ quell@ di “Supporto Legale” con una serie di pubblicazioni e un documentario che, tra gli altri appuntamenti, sarà presentato il 21 luglio proprio a Genova.

Buoni secondi sono arrivati una manciata di ex indyan@ che hanno pensato bene di scrivere in un libro corale una possibile storia di Indymedia in Italia:

https://edizionialegre.it/product/millennium-bug/

Una storia corale nel senso che il libro è costruito su una lunga serie di interviste ad attivist@ di Indy, in cui si racconta genesi, nascita, sviluppo ed infine morte dell’allora famoso network di in/formazione libera, autonoma ed indypendente.
Corale perché quella di Indymedia è stata veramente una storia  bella, fatta in gran parte da giovani che, allora, avevano tra i 20 e i 25 anni (a parte una piccola ed ininfluente parte di anzian@, che non ruppero poi troppo le gonadi… almeno spero!) e che grazie al “metodo del consenso” e al loro essere interni ai “movimenti noglobal” riuscirono, per un lustro, a mettere sotto sopra non solo il mondo ormai stagnante della politica “di movimento”, ma anche tutto il mondo dei massmedia mainstream.
L’idea di fondo è semplice: sono passati vent’anni, ormai è evidente che avevamo ragione (ormai lo dicono tutti, vedi a mo’ di esempio https://www.huffingtonpost.it/entry/le-ragioni-inascoltate-del-popolo-di-genova-20-anni-dopo_it_60e31c60e4b03f72964d1073?utm_hp_ref=it-homepage), proprio per questo ci hanno massacrato, perché per la prima volta dopo trent’anni c’era un movimento internazionale e meticcio, a mettere i bastoni tra le ruote di lor signori, allora proviamo a lasciar memoria di quella vicenda e di quegli anni e, soprattutto, di quel metodo e di quelle ragioni.

Ovviamente quelli sopra sono solo due dei tantissimi interventi e libri che si occuperanno del ventennale di “Genova 2001”: è uscito di tutto, ma veramente di tutto, compreso un incredibile libro di uno sbirro che, per torbidi motivi, ha pensato bene – amplificato da buona parte della stampa “progressista” – di buttare ancora un po’ di fango su quei giorni e sulla morte di Carlo: gli sciacalli (e gli utili idioti) non si smentiscono mai.

Oggi leggo che la manifesto libri ha pubblicato o sta per pubblicare un libro sulla vicenda di Genova 2001. Evviva, ho pensato, loro c’erano, erano al Media Center con noi, in quei giorni, hanno provato a raccontare quello che veramente è accaduto, sicuramente hanno cose interessanti da dire. Su faccialibro, infatti, si può leggere:

“sapete tutte/i cosa accadde nei giorni del #G8 di #Genova2001.

Sono passati vent’anni. Noi eravamo lì dallo stadio #Carlini alla #Diaz. In mezzo #PiazzaAlimonda e #Bolzaneto.

L’AGGUATO
GENOVA 2001-2021
manifestolibri

pubblica le testimonianze di chi era lì in quelle 4 giornate in cui lo Stato sospese i #diritti #diritticivili e #dirittiumani che pubblicammo sul #LibroBiancoDeiFattiDiGenova insieme a tutte le testate della sinistra (#Unita ’ , #Liberazione, il manifesto Manifestolibri, #Carta) delle quali siamo gli ultimi sopravvissuti.

Con una lettura storiografica di Marco Grispigni e il racconto sui media e su #Indymedia di Anna Pizzo
Per #CarloGiuliani

GENOVA‘01 VENT’ANNI DOPO: UN ALTRO MONDO E’ NECESSARIO”

Quando leggo il nome di Anna Pizzo un sorriso ed un filo di malinconia increspano il mio viso.
Per chi non lo ricordasse, Anna Pizzo e Pierluigi “Gigi” Sullo erano, nel 2001, i fondatori di uno dei tanti spinoff del Manifesto, “Carta”, settimanale nato come “costola” del noto quotidiano comunista e animatori dei “Cantieri sociali”, progetto politico che provava a diffondere nei territori italioti quelli che, dopo Genova, diventeranno i “Social Forum”, sorta di assemblee territoriali che avrebbero dovuto portare le tematiche e le lotte “noglobal” ovunque (sintetizzo, che non ho voglia di raccontare tutto per bene. Cercate sull’internet se volete approfondire). Scopo più che nobile, non fosse che il metodo utilizzato non fosse esattamente orizzontale.
È grazie a loro, infatti, che ho conosciuto quelli che poi sarebbero diventati miei grandi amici – Davide e franchitiello, solo per dirne due – perché in quel giugno (mi pare) 2001 , in una Siena mai come allora attiva e vivace, piena di collettivi, iniziative, occupazioni, lotte, manifestazioni, assemblee e riunioni, un bel giorno ci svegliamo e veniamo a scoprire, leggendolo sul giornale, che proprio a Siena si sarebbe aperto un “Cantiere sociale” e che tutta la cittadinanza festosa e festante era caldamente invitata a partecipare, per portare il movimento anche nella città del Palio.
Fottendosene allegramente di un decennio buono di movimento, che pur piccolo che fosse, a Siena in quegli anni aveva fatto tante cose e tante relazioni aveva intrecciato.
Così decidemmo di accettare l’invito, andando a contestare Pizzo e Sullo nel loro “Cantiere”, in maniera pacifica ma determinata, ed iniziando una discussione, all’inizio determinata e incazzata, ma poi – come spesso succedeva allora – aperta all’ascolto e alla contaminazione.

Questo lungo e affettuoso ricordo per dire che, vent’anni dopo, la lupa perde il pelo, ma non il vizio:
Anna Pizzo, che Indymedia l’ha vista giusto da lontano (da vicino solo a Genova, ma con malcelata e scarsa sopportazione), nel sopracitato testo pensa bene di scriverne, chissà se parlando, o addirittura facendo parlare qualcun@ che Indymedia l’ha fatta?
Aspetto di poter leggere il libro, ma già temo quale possa essere la risposta… 😉

Genova 2001 – La filastrocca

Scuola Diaz di Genova il 21 luglio 2001

Un, due, tre, evviva Pinochet, quattro, cinque, sei, diamo fuoco agli ebrei, sette, otto, nove, il negretto non commuove. Di nuovo. All together. Un, due, tre, evviva Pinochet, quattro, cinque, sei, diamo fuoco agli ebrei, sette, otto, nove, il negretto non commuove.
Sono giorni che mi addormento al suono di questa cantilena, la filastrocca degli orrori che le bestie che picchiavano alla scuola Diaz di Genova o alla caserma di Bolzaneto cantavano cullando gli incubi a occhi spalancati o abbottati dai manganelli di giovani uomini e donne inermi.
E’ la filastrocca del potere, dell’arroganza. Ne sono ossessionato. Terrorizzato. Mi toglie il sonno. Penso a quella maledetta notte in cui qualcuno ha trovato il conforto di un dio da pregare ma molti nessuna ragione ultima per perdonare. E chi restituirà l’abbandonarsi al sonno a quei giovani inermi, chi restituirà loro la possibilità di cantare più una filastrocca, sintassi semplice del ricordo, senza dover tornare all’orrore di quella notte, alla paura, alla vergogna di avere paura?
Alla vergogna di lottare. Perché è questo il meccanismo micidiale che quei pestaggi furiosi hanno voluto instaurare. Vergogna di sé. Vergogna di pisciarsi addosso nei calzoni, vergogna di sentire la puzza della propria merda, vergogna degli sputi in bocca, vergogna del proprio sangue che non si ferma più, vergogna delle proprie teste che si rompono troppo facilmente, vergogna delle proprie ossa che si fratturano stupidamente, vergogna del proprio corpo, vergogna di essere solo una donna in quel momento, di essere solo un ragazzino in quel momento.
Come quando si diventa vecchi e si scorreggia in pubblico, alla tavolata della festa, perché non riesci più a controllare il tuo sfintere: ma lì tutti si guardano imbarazzati un attimo e si fa finta di niente, oppure uno sghignazzo rovescia la vergogna e dà il via a una risata liberatoria: siamo vivi ancora, si è vivi finché una comunità ti accoglie, ti sente parte sua, anche se sei vecchio e scorreggi in pubblico.
Lì no, lì alla Diaz, lì alla caserma di Bolzaneto no: lì non potevi mischiare il tuo sangue con gli altri, la tua vergogna con quella degli altri: lì eri solo, di fronte al disfarsi del tuo corpo, di fronte a nugoli di bestie che menavano, di fronte alla violenza della morte, alla paura di poter morire, così indecorosamente, tra pisci e sputi. Non al garrire di bandiere della rivoluzione o alla marcetta pacifica della non-violenza, comunque vicino alla propria comunità: una morte eroica o una morte tranquilla, una morte qualunque. No, la tua paura della morte doveva essere avvilita, svilita, vile. Privo dei diritti che lo rivestono e ne fanno una parte della comunità – e il diritto di manifestare lo fa appartenere alla tua comunità, come i diritti civili lo fanno appartenere alla tua comunità nazionale – il tuo corpo è nudo, nulla, carne da tritare.
Chi ha scritto stupito che la polizia non caricasse i “violenti”, e chi ne ha tratto un lineare quadro di collusioni e complotti, non ha però pensato questo: spaccare la testa a un militante politico, come spaccare la testa a un ultrà da stadio, non modifica i suoi comportamenti; in un certo senso, il militante politico, come l’ultrà da stadio, ha già messo in conto che la sua testa verrà spaccata, non una volta sola: fa parte del suo percorso, e verificarlo rafforza i suoi convincimenti, il suo “martirio” sarà accolto evangelicamente, politicamente o come una tacca da esibire in curva, con maschia improntitudine. Esemplare, ad esempio, il modo di gestione del proprio corpo collettivo e individuale dei “disobbedienti”, il loro coprirsi, la loro vestizione di armature soffici che in qualche modo attutiscano quel che accadrà senza mai poterlo evitare. Spaccare la testa o le braccia a un ragazzino di 15 anni ha uno scopo preciso: esercitare la dissuasione attraverso la violenza, un comandamento da cicatrizzare: “tu non devi manifestare”. Perché è questo che i “gloriosi” militari di questa repubblica intendevano ottenere.
Militari! Una commissione indagherà sui fatti della Diaz e sulle responsabilità lì come alla caserma di Bolzaneto: bene. Ma vengano intanto strappate le mostrine a questi signori, vengano degradati, mandati a pulire latrine: non ci sono codici d’onore in questo paese? Di quali indagini abbiamo bisogno ancora per verificare quello che è stato ormai ossessivamente ripetuto, da immagini, da parole, quello che è ormai l’incubo collettivo di una nazione, di un mondo intero che ci grida dietro? E quale “black bloc”, quale violenza di piazza potrebbe mai giustificare quei manganelli usati come mostruosi cazzi a rovistare fra le gonne, le cosce, le tette di donne e ragazzine? Che paese è mai questo se ha bisogno di quei manganelli fra le orribili urla del branco, di questo “immaginario militare” per fermare una piazza che manifesta o si fa pure incendiaria? Chi addestra questi uomini? Chi forma il loro carattere? Chi segue la loro preparazione? Quale mano governa i loro sonni?
Uno stupro di massa, questo è stato la Diaz, questo è stato la caserma di Bolzaneto, come nella tradizione della soldataglia: tanto più indegno perché per la giustificazione allo stupro viene chiamata in soccorso la provocazione di sassi o che: troppo rossetto, signor giudice, troppo corta quella minigonna, troppo ancheggiare.
Io ho paura. Io non voglio che la mia libertà di manifestare sia protetta da coraggiosi e virili giovanotti con caschi e gommapiume: io voglio che i servizi d’ordine siano composti da ragazzini di 15 anni o dalle loro madri, da gente qualunque e inerme. Voglio poter affidare la mia sicurezza in piazza alla generosità, all’ingenuità, ai sogni, agli occhi puliti di un quindicenne: io non vivo in Messico, in Colombia, in India, in Malesia. Io non vivo nell’Argentina, nel Cile di 30 anni fa. Io sto qui.
Sto qui, con un movimento che ha dispiegato una capacità di egemonia culturale impensabile, sorprendente, che ha scadenzato l’agenda politica di questo paese e del mondo, che ha imposto i suoi temi all’attenzione della gente qualunque, da lotte rivendicative a lente costruzioni di alternative possibili. Temi quotidiani, il salario giusto, i diritti giusti ma anche quello che mangiamo, beviamo, vestiamo, guardiamo, leggiamo, ascoltiamo, sappiamo; temi universali. E’ un pensiero forte quello che viene da questo movimento: non è solo un pensiero antagonista e conflittuale: proprio una egemonia in grado di formare opinione pubblica. In grado di opporsi, di fare da polo di attrazione rispetto al neo-liberismo, al rampantismo, al capitalismo sfrenato, al mercato, ai comportamenti minuti e banali dei suoi vessilliferi, alle sue icone, ai suoi simboli, articolandosi in altri gesti, in altre parole, in altri linguaggi.
Anzi, sta proprio qui la sua forza, cui contribuiscono ideologie varie, percorsi differenti, tonalità diverse, spesso ambiguamente accostate, spesso proficuamente vicine. Una forza che esubera la “politica”, l’intelligenza politica, la capacità organizzativa sinora messa in campo, che fa ancora troppo spesso ricorso a modi d’un tempo, a grammatiche d’un tempo, con difficoltà a intercettare, a tradurre, a interpretare, a rappresentare nuovi linguaggi, nuove esigenze. Questo movimento deve avere tempo, deve avere coraggio. Io ho paura.
Per quella maledetta filastrocca.

Lanfranco Caminiti, Roma, 3 agosto 2001

Genova 2001 – Magliette a strisce, drappi giallorossi

Piazza Carlo Giuliani

Al funerale di Carlo Giuliani, ragazzo ucciso a Genova, non c’erano bandiere rosse, bandiere nere, bandiere rosso-nere, niente falci, martelli e simboli dell’anarchia, ma il giallo-rosso della Roma, la squadra del suo cuore. I suoi amici hanno voluto così, forse lui stesso avrebbe voluto così se mai avesse pensato alla morte. E’ la prima volta che a coprire la bara di un giovane morto durante degli scontri con la polizia in una manifestazione politica viene usato il drappo di una squadra di calcio. E’ accaduto altre volte, semmai, che per un giovane ultrà morto in qualche scontro con ultrà rivali, una bandiera politica sia apparsa ai suoi funerali, a ricordare il suo impegno sociale. Chissà, se la linea della vita di Carlo fosse stata più lunga, e se avesse raggranellato i soldi necessari, forse, oltre lo pterodattilo, sul suo corpo ci avrebbe tatuato un gladiatore, come quello di Totti.
Forse sta tutta qui, in quel drappo giallo-rosso, la distanza, acclarata d’altronde, ma più volte conclamata, richiesta, troppo esagerata, tra il Genoa social forum, le Tute bianche, i Lilliput, quant’altro e la furia della piazza, Carlo Giuliani vivo. La distanza anche con il Black Bloc, gli scontri pensati a tavolino, le incursioni: la distanza tra la “politica”, la “militanza”, la “rappresentazione”, il “simbolico”, la “mediazione”, la “guerriglia” persino, e l’immediatezza di un corpo gettato nella mischia. Un corpo qualunque, un corpo della moltitudine.
Si è fatto un gran dire della moltitudine nei giorni di Genova, evocata prima, materializzatasi poi nell’enorme corteo di sabato 21. Ma essere moltitudine non è un corteo, una manifestazione, una rappresentazione forte di un disagio, di una protesta, di una proposta: essere moltitudine è una condizione della vita, prima di tutto, della vita di ogni giorno, della propria impotenza, disperazione, solitudine, assenza di voce, impazienza, rabbia, dolore. Della percezione di una vita di merda e di un’altra vita possibile. Dell’incapacità di trovare la mediazione necessaria, il linguaggio che permetta a questa condizione di ritrovarsi, di diventare fare sociale. La moltitudine è immediatezza. Si può partecipare in tanti a un enorme corteo ma questo non lo trasforma in una moltitudine; e non trasforma se stessi nell’appartenenza a quella moltitudine. Per alcuni, per molti, l’appartenere a un progetto, a una struttura, a un fare, rallenta la propria ansia, la incanala nella cooperazione, la modella. Per altri, altrettanto molti, non rimane nulla oltre l’occasionalità del ritrovarsi: resta un percorrere la vita a tentoni, un perdersi e disperdersi.
Carlo era stato a Roma al grande raduno romanista per la festa dello scudetto con la Ferilli e Venditti. Un milione di persone, di bandiere, sciarpe, gagliardetti, distintivi, magliette, cappellini giallo-rossi. Bambini coi padri sudati da fare schifo, ragazzine cresciute a troppi maritozzi con la panna a esibire ombelichi ingrassati, shampiste ossigenate, cocomerari coi semini ancora tra i denti, ragazzi coi capelli a nidi d’uccello sulla testa, nanetti con le scarpe con la zeppa per sembrare più alti, quelli delle lampade con il petto inanellato da tre, quattro, cinque giri di collane d’oro, tatuati dei carceri minorili, madri dalle diecimila amatriciane in una vita, quelli che passano le giornate con il culo su tutti i muretti, gente qualunque, Carlo Giuliani. Ne aveva portato indietro una bandiera donata poi a un suo amico. Quella festa, spettacolare per molti versi, è stata citata in questi giorni, per dire quanto poco oggi la politica riesca comunque a mobilitare, nonostante enormi manifestazioni, rispetto agli oppi dei popoli, il calcio di sicuro, ma perché no?, anche le giornate dei papa-boys. E quanto incolmabile sia la distanza fra chi ha “coscienza” e le “masse” instupidite. Eppure un filo sottile sottile quanto la vita di Carlo ci dice che le cose non stanno proprio così. Qualcuno, almeno uno deve averlo pensato, deve saperlo di suo, se alla manifestazione nella capitale tenutasi il 24 come in altre piazze d’Italia, accanto striscioni e bandiere di gruppo e partito ha portato una bandiera giallo-rossa. Anche questo si vede per la prima volta.
Il gruppo di giovani, tra cui Carlo Giuliani, che aveva accerchiato la camionetta dei carabinieri stava scatenando la propria furia: travi, bastoni, estintori, mani, piedi, ogni cosa veniva usata contro quella camionetta che, per il panico, per errore o che, era rimasta nella trappola. Le immagini lo dicono con evidenza. Una violenza impressionante. Un gruppo, un bloc di giovani scaricava la rabbia accumulata per altri pestaggi, per vigliacche aggressioni, per una violenza cieca che loro stessi o loro amici avevano poco prima o poco più in là subìto da una qualche carica della polizia o dei carabinieri: anche questo è rimasto evidente nelle immagini. E quanto accaduto la notte di sabato alla sede del Centro media è solo l’espressione concentrata nel tempo e nello spazio di un comportamento tenuto dalla polizia in tutti i luoghi e le occasioni a Genova: giovani donne, persone inermi che scappavano o cercavano rifugio venivano massacrate a calci, con i manganelli, con gli scudi, in cinque, in dieci, a cerchio, non appena restavano soli, non appena incappavano in un nugolo di poliziotti: anche questo è rimasto evidente nelle immagini. Il bloc è l’unica salvezza che hai nella guerra di strada, come allo stadio: se sei isolato sei perduto, se rimani vicino ai tuoi amici non sarai preda dei tuoi nemici, della polizia, delle “guardie”. E’ una legge della natura, non della politica. La camionetta era rimasta isolata: dovevano pagare. E’ una legge della natura, non della politica. Ma il livello di quella violenza non può spiegarsi nella natura di Carlo, nella natura dei suoi compagni del bloc, nella natura del comportamento del branco, nella natura della guerra di strada: il livello di quella violenza può spiegarsi solo con l’efferata ferocia dimostrata dalle forze dell’ordine, con la gratuita disponibilità al massacro, con la predeterminata volontà a intimidire, a spaventare, a impaurire, con la sensazione di impunità che da troppo tempo caratterizza le forze di polizia. Che siano state le bestie della polizia penitenziaria a fare il lavoro sporco “a freddo” ci fa solo ricordare le botte che giorno dopo giorno le squadrette somministrano ai detenuti qualunque. Usare la pistola per uccidere è stato, in questo senso, solo un gradino della scala dell’imposizione della forza comunque.
Non c’è nulla da questo punto di vista che possa avvicinare i due giovani, e che ci ricordino la loro stessa età è solo maldestra retorica: l’uno, il carabiniere è l’arroganza del potere: persino nel panico può ricorrere ad essa e in maniera micidiale; l’altro è solo la furia di chi non ha mai alcun potere, di chi per una volta vorrebbe fargliela pagare, vorrebbe vederli scappare.
Non c’è nulla da compiacere in questo, in quello scontro così ravvicinato, così crudo, così essenziale, così esemplare, anzi: c’è da averne paura, orrore. Chi in questi giorni ha gridato, ha allarmato contro una situazione da Stato sudamericano, da polizia di un golpe, ha diecimila volte ragione. Chi chiama alla mobilitazione democratica magistrati, amministratori, giornalisti, legislatori, persino poliziotti, ha diecimila volte ragione. La strada è questa, quella della mobilitazione democratica, dell’opposizione puntuale, precisa, aperta, pacifica. Abbandonati a noi stessi, alla guerra di strada, siamo preda della loro violenza cieca e della nostra stessa furia. Preda della logica del bloc, della natura.
Ma in quella vita gettata contro l’arroganza del potere e della forza, in quel corpo martoriato per terra, devono essersi riconosciuti in tanti se così forte è stato il sostegno alle mobilitazioni di questi giorni, quei tanti, questa sì una moltitudine, che giorno dopo giorno, privi dei movimenti, privi delle mediazioni, sperimentano sulla propria pelle l’arroganza delle “guardie”, i soldati del Male.
Il luglio del ’60 di Genova fu la rivolta delle magliette a strisce – la divisa della gente qualunque di quegli anni – contro i caroselli assassini delle camionette di Tambroni, il ministro degli Interni che a tutti i costi voleva far tenere il raduno fascista; mi piacerebbe che tra i colori dei popoli di Seattle e di Porto Alegre, le mani bianche, le bandiere arcobaleno, il verde ecologista, le tute bianche, le facce variopinte di indigeni del Sud America o dell’Africa, le bandiere rosse, le tute nere, si ricordasse anche il colore di Carlo: quel drappo giallo-rosso.

Lanfranco Caminiti, Roma, 27 luglio 2001

Genova 2001 – Gli uomini neri – Men in black

Black bloc a Genova nel 2001

Uomini neri. Ragazzi. Con i volti coperti, le felpe con il cappuccio, le bandane, i passamontagna, i berrettini, le scarpe da ginnastica, i jeans, le magliette, le canotte. Vestiti per caso. Uomini neri. Ragazzi qualunque. Come il volto che si affaccia dalla foto-tessera di Carlo Giuliani, due occhi azzurri tranquilli, un taglio di capelli ordinato, un’immobilità catturata dal flash. Solo istantanea. Capace all’improvviso di una violenza estrema. Di giocarsi in un attimo la propria vita.
Feroce. Gratuita. Demente. Assurda. Provocatoria. La violenza degli uomini neri, dei ragazzi qualunque, esplosa nelle strade e nelle piazze di Genova è stata etichettata in mille modi. Tutti giusti, tutti veri, tutti reali. Non è questo il punto. La descrizione dei comportamenti visti e accaduti a Genova, delle vetrine spaccate, dei cassonetti incendiati, delle barricate erette, degli assalti a qualunque cosa, quella di piazza, era fedele e non poteva essere altrimenti. Quando mai la violenza è fine, razionale, ragionata, consapevole, libera, spontanea?
Prezzolati, infiltrati, collusi, sospetti, strani: ciascuno ha un episodio che ha visto, fotografato, filmato o che gli è stato raccontato da persona credibile e che attesta la bontà di quella definizione. Ma ciascuno di questi dettagli – veri o verosimili – non può spiegare la complessità di quello che è accaduto: un manipolo di incursori non può mettere a ferro e fuoco una città se non facendo leva su un sentimento di devastazione già vivo e impellente e pronto a esplodere. E questo è il punto.
Non molto tempo fa, un uomo assaltò da solo con una bottiglia molotov un treno, mettendo a repentaglio la vita di innocenti passeggeri. Fu ritrovato lungo i binari, morto, forse suicida. Con difficoltà gli fu data un’identità (a Carlo Giuliani è andata meglio, i suoi amici si sono battuti per lui): nessuno sembrava conoscerlo, le persone che aveva occasionalmente frequentato erano più che altro preoccupati di prendere le distanze, era un solitario, un emarginato – dissero tutti per rassicurarsi -, viveva di elemosine, di randagismo, di sue voci nella testa. Sarebbe andato a Genova quell’uomo? Avrebbe dato fuoco alla città?
Da dove viene questa violenza, da quali viscere insondabili e non sondate, quali urla grida che non trovano orecchie per ascoltarle, quali parole non trovano lingua per parlare, modi per organizzarsi, “coscienza” per diventare politica, fare sociale, comportamenti collettivi? Dove sono i sociologi che capiscono, gli intellettuali che ragionano e discettano, i politici che rappresentano, i giornalisti che scrivono, i preti che ascoltano gli ultimi, gli infimi?
Gli uomini neri, i ragazzi qualunque colpiscono tutto, negozi, banche, insegne, merci, case, cose, poliziotti, compagni. “Il n’y a pas des innocents” – non ci sono innocenti. Nostri talebani che minano i nostri Buddha. Danno fuoco alle nostre certezze, alle nostre coordinate. Non c’è potenza nei loro gesti, non c’è potere, solo furia devastatrice. Assassina e suicida, martire e colpevole, nuda. Violenza nuda, corpi nudi. Corpi come niente, su cui una jeep può passare e ripassare, quasi fosse un sasso, una scarpa, una busta, niente. Corpi non ricoperti dall’intelligenza dei movimenti, dalla capacità di inventare rappresentazione, di trattare i media, dalle tattiche, dall’uso del tempo, dalla pazienza di saper vincere e perdere in un lungo percorso, dalla storia. Si coprono solo con i cappucci o quel che capita, sono coperti solo da un lenzuolo quando cadono e l’umana pietà li avvolge.
Figli di questo tempo, incapaci di sopportare il dolore di questo tempo, forse più degli altri raccontano di questo tempo e della sua assurdità: in fuga, dalla famiglia, dal lavoro, dalla società, persino dai centri sociali. Ai margini. A Göteborg come a Genova. Figli di questo tempo, forse più d’altro ci mostrano cosa davvero accadrebbe se i poveri del mondo, gli esclusi, gli emarginati, i reietti, gli affamati, i condannati al “braccio della morte” di una vita quotidiana miserabile, improvvisamente arrivassero come cavallette, come una delle sette piaghe, nelle nostre ricche città. Carichi d’odio cieco. Spettri essi stessi, uomini neri, evocano uno spettro, un’apocalisse.
Eppure, che movimento sarebbe mai questo nuovo, enorme, forte, che nasce da Seattle e da Porto Alegre, che raccoglie gli operai americani e i contadini brasiliani, Internet e gli aiuti in medicine per un villaggio dell’Africa, che si preoccupa dei prezzi del caffè e degli OGM, del Chiapas e del copyright, se non ascoltasse anche loro, le loro ragioni, il loro dolore, la loro furia? Che movimento sarebbe mai questo se non fosse in grado di affrontare la paura che incutono, la loro stessa paura? La nostra stessa paura. La nostra stessa impazienza. Che movimento sarebbe mai questo se sembrasse solo in grado di “preparare le barricate e chiamare la polizia per rimuoverle”?
In un luglio di quaranta anni fa, a Torino, in piazza Statuto, durante lo sciopero degli operai Fiat, disoccupati, meridionali, operai, nullafacenti, curiosi assaltarono una sede sindacale della Uil al culmine di una esasperazione, per il lavoro, per la servitù quotidiana, per l’emarginazione cui erano oggetto in una città “perbene”. L’Unità del 9 luglio definirà la rivolta “tentativi teppistici e provocatori”, ed i manifestanti “elementi incontrollati ed esasperati”, “piccoli gruppi di irresponsabili”, “giovani scalmanati”, “anarchici, internazionalisti”. Anche allora si parlò di infiltrati, di provocatori, di fascisti, di aderenti ai sindacati gialli: ci furono foto e testimonianze. E molti di questi dettagli erano proprio veri. C’erano provocatori e fascisti, anche. Ma questo non poteva dar ragione di una “frattura” così evidente, lampante, significativa. Persino Panzieri, dei “Quaderni rossi”, aveva sospetti e perplessità, lui che più d’altri aveva lavorato e scritto e pensato alla comprensione dei nuovi fenomeni legati al lavoro operaio. Nacque in quella piazza, in quelle giornate un movimento operaio nuovo, che attraversò tutti gli anni sessanta e settanta e ha segnato significativamente non solo il pensiero “operaista” ma il nostro paese. Qui, però, non si vuol dire che nelle devastazioni di Genova si deve leggere un nuovo movimento sociale, ma che gli attrezzi della comprensione devono andare più in profondo di quelli che banalmente si usano quando appare qualcosa di inaspettato e che intimidisce forse anche per questo, una coazione a ripetere quel “infiltrati, provocatori, fascisti”.
I G8 finiscono o saranno diversi. E’ una grande vittoria dei movimenti. Come d’altronde Genova è stata una grande manifestazione di forza dei movimenti. Ma se i G8 finiscono è anche per loro. Per gli uomini neri. Per i ragazzi qualunque e la loro furia.

Lanfranco Camminiti, Roma, 22 luglio 2001

Mastodon al Festival delle Autoproduzioni

Domenica 9 settembre, alle ore 14.30, nell’ambito del Festival delle Autoproduzioni, sarà presentato Mastodon, il social network autogestito e decentralizzato che tutela la privacy degli utenti.

La presentazione di Mastodon al Festival delle autoproduzioni

Che cos’è Mastodon?

Mastodon è un social network gratuito e open-source. Un’alternativa decentralizzata alle piattaforme commerciali che evita che una singola compagnia monopolizzi il tuo modo di comunicare. Scegli un server di cui ti fidi — qualunque sia la tua scelta, potrai interagire con chiunque altro. Chiunque può sviluppare un suo server Mastodon e partecipare alla vita del social network.

Creato per conversazioni reali

Con 500 caratteri a disposizione, un supporto per i contenuti granulari ed avvisi sui media potrai esprimerti nel modo desiderato.

 
Tu sei una persona, non un prodotto

Mastodon non è una rete commerciale. Niente pubblicità, niente data mining, nessun giardino murato. Non c’è nessuna autorità centrale.

 
Sempre a portata di mano

Apps per iOS, Android ed altre piattaforme, realizzate grazie ad un ecosistema di API adatto agli sviluppatori, ti consentono di poter stare ovunque al passo con i tuoi amici.

 
Un approccio più umano

Imparando dai fallimenti degli altri networks, Mastodon mira a fare scelte di design etico per combattere l’abuso dei social media.

Anonymous, ENEL, la Geotermia e il Monte Amiata

La copertina del libro di Antonella Beccaria, "Anonymous. Noi siamo legione"Su consiglio di un amico leggo il bel “Anonymous. Noi siamo legione” di Antonella Beccaria, uscito per i tipi di Aliberti.
Era da un po’ che volevo affrontare la questione Anonymous: io, vecchio “hacker” della seconda generazione, quindi abbondantemente vecchia, oggi, sono sempre stato curioso ma un po’ diffidente, rispetto gli anonymi.

Noi si arriva, più o meno tutt@, dal mondo dei centri sociali, dove ancora oggi si celebra l’annuale Hackmeeting, quindi dal mondo della vecchia e defunta “sinistra extraparlamentare”. Un mondo, bene o male, fatto di identità, divisioni, gerarchie, leader, portavoce, e via così; un mondo contraddittorio, sicuramente (un giorno forse qualcuno lo studierà con gli strumenti della storia, della sociologia, forse anche dell’antropologia, e sarà interessante vedere cosa ne scappa fuori), in cui proprio la mia generazione iniziò un percorso verso una pratica più libertaria e meno leninista dell’agire comune: assemblearismo, metodo del consenso, orizzontalità, dialogo.
Le anonym@, forse, sono il frutto di questa contraddizione, di questo scontro tra vecchio agire politico novecentesco e qualcosa di nuovo nel XXI secolo. Per questo, forse, me li vivo con curiosità – e forse anche speranza – ma anche come qualcosa di lontano, diverso.

Rimane la curiosità, e così mi immergo nella lettura. Via via che passano le pagine – scritte, come sempre, benissimo da Antonella, con uno stile pulito e preciso, ma accattivante; in cui si sente la cura del dettaglio e l’importanza che si dà alle parole, senza per questo perdere il gusto di prendere posizione – mi accorgo di quanto mi piacciano, quest@ anonymi: il loro essere completamente decentrati, l’essere veramente a pieno “attivisti”, cioè soggetti attenti a quel che accade attorno a loro, e che si “attivano” quando c’è qualcosa da fare, più che da chiacchierare; che si organizzano per affinità, e non per “ideologia” (presa nell’accezione novecentesca, che trasforma l’avere una visione del mondo e del perché va in un certo modo, in una religione con santi, preti e papi), con una pratica difficilissima, fatta tanto di ascolto, che gli invidio profondamente.

E via via che si prosegue nella lettura, si coglie il crescere della “politicizzazione” di questo mondo di hacker, che vanno a combattere o a difendere i diritti di tutte e tutti, a prescindere dal colore della pelle, dalla religione, dal pensiero politico: l’informazione deve essere libera, le persone devono essere libere e devono poter avere i mezzi di vivere dignitosamente, vedere rispettati i propri diritti, umani, sociali e politici, devono poter sapere cosa accade loro intorno in maniera trasparente; chi governa non si può permettere opacità, sopprusi, collusioni con il mondo della finanza e del business. Una critica dello “stato di cose presenti” che parte dalle basi, dall’inizio, per poi vedere a cosa si arriva, senza preconcetti o partiti presi, confrontandosi quotidianamente con la prassi, con il vissuto, per poi calarlo in un ragionamento (invece che il contrario).
Mi piacciono!

Un'immagine dell'una bella #OperationGreenRights contro Enel e AnsaldoPoi arriva l’ENEL, e il deja vu è clamoroso!

Antonella si mette a raccontare dell’ #OperationGreenRights, cioè del sostegno delle anonym@ alla lotta contro la colombiana “El Quimbo”, la diga targata Enel-Endesa che vuole sbarrare il corso del Rio Magdalena, fiume che nasce sulla cordigliera centrale delle Ande e che sfocia oltre millesettecento chilometri più avanti, nel Mar dei Caraibi. Su questa vicenda si legge:

per realizzarla l’impatto sull’ecosistema locale si profila in termini devastanti. Si parla di oltre ottomila ettari di foresta amazzonica data alle fiamme e poi, una volta disboscata, quell’area sarà sommersa mentre il corso del fiume verrà deviato. Non subito, certo, come per la Tav nell’estremo nord Italia, perché tutto ciò accada ci vorranno almeno vent’anni, anche se c’è chi stima che potrebbero esserne necessari più del doppio. Ma le stime dell’impatto che un’opera del genere avrà sull’economia a ridosso del bacino idrico del Rio Magdalena ci sono già: si quantificano perdite per un importo complessivo di quattrocentosettantadue milioni di euro a fronte di ricavi, che arriveranno tra due decenni e che finiranno per lo più nelle mani di società private soprattutto straniere, di duemiladuecento o poco più.

E di storie così, sempre con ENEL nei panni del devastatore dell’ambiente, se ne trovano anche altre, come quella contro il Consorzio HidroAysen in Cile:

cui quasi seimila etari della Patagonia sarebbero sommersi dalle acque di una diga, per creare elettrodotti di duemilacinquecento chilometri circa […]. [Diga che provocherebbe una] innondazione che comporterebbe l’irreparabile danneggiamento del delicato ecosistema della zona […]. L’espropriazione dei terreni priverebbe gli abitanti delle loro terre, unico capitale e strumento di sussistenza […].

Insomma, uno scenario catastrofico, sia dal punto di vista ambientale che da quello umano. Uno scenario che, purtroppo, sia per gli attori che per i risultati, mi ricorda terribilmente quello che stanno vivendo le popolazioni dell’Amiata in questi anni, sempre a causa dell’ENEL e della classe politica locale.

Una delle tante immagini che rappresentano la drammatica situazione dell'Amiata a causa della geotermiaCome ci raccontano tutti i giorni i comitati che sempre più spesso e numerosi nascono fin nei più minuscoli paesi dell’Amiata – siano essi gli antichi Sos Geotermia, o i più recenti Agorà CittadinanzAttiva o MaremmAttiva – l’ENEL sull’Amiata, con le sue centrali geotermiche “flash” sta contribuendo pesantemente alla devastazione di uno degli ambienti naturali ancora incontaminati del nostro paese; al prosciugamento di uno dei più importanti bacini d’acqua potabile del centro italia, il bacino del Fiora, che serve oltre 700 mila persone; bacino che viene anche inquinato con sostanze pericolosissime, come l’arsenico; per non parlare delle emissioni in aria. Uno scenario che ha portato ad uno studio del 2010 dell’Ars Toscana, da cui si evince che nei comuni geotermici dell’Amiata c’è un eccesso di mortalità per tumore nei maschi del 13% MEDIO, rispetto al resto della Toscana, ma anche rispetto al resto dei comuni NON geotermici dell’Amiata stessa (per capirsi: a Taranto l’eccesso di mortalità è dell’11%).

Tutto ciò, in una situazione energetica del nostro paese, come di/mostra un articolo del 2014 del Comitato Agorà di Monticello, che è fatto di ECCESSO  di produzione (dati Terna del febbraio 2013) e del raggiugimento anticipato degli obbiettivi del Protocollo di Kyoto già nel 2014.
Una situazione, perciò, che non può che essere squisitamente SPECULATIVA, visti i ricchissimi “incentivi” che prende ENEL per far le sue mortifere centrali geotermiche sull’Amiata. Con la connivenza quasi totale della classe politica Regionale e locale, in toto rappresentata dal Pd toscano guidato da Enrico Rossi.

Leggendo tutto ciò verrebbe quasi da chiedere:

anonymi, quando ci regalerete una bella #OperationGreenRights contro ENEL e Regione Toscana per la salvezza dell’Amiata? Magari non sono “esotici” come gli amici Colombiani, ma anche i cittadini – e i comitati – dell’Amiata meriterebbero aiuto e sostegno. Ne hanno veramente tanto bisogno!!

All You need is love

E io contavo i denti ai francobolli
dicevo “grazie a Dio” “buon Natale ”
mi sentivo normale
eppure i miei trent’anni
erano pochi più dei loro
ma non importa adesso torno al lavoro

cancella carlo vive

Cantavano il disordine dei sogni
gli ingrati del benessere francese
e non davan l’idea
di denunciare uomini al balcone
di un solo maggio, di un unico paese

E io ho la faccia usata dal buonsenso
ripeto “Non vogliamoci del male”
e non mi sento normale
e mi sorprendo ancora
a misurarmi su di loro
e adesso è tardi, adesso torno al lavoro

Expo mcdonalds

Rischiavano la strada e per un uomo
ci vuole pure un senso a sopportare
di poter sanguinare
e il senso non dev’essere rischiare
ma forse non voler più sopportare

black

Chissà cosa si trova a liberare
la fiducia nelle proprie tentazioni
allontanare gli intrusi
dalle nostre emozioni
allontanarli in tempo
e prima di trovarsi solo
con la paura di non tornare al lavoro

corri rosse

Rischiare libertà strada per strada
scordarsi le rotaie verso casa
io ne valgo la pena
per arrivare ad incontrar la gente
senza dovermi fingere innocente

black2

Mi sforzo di ripetermi con loro
e più l’idea va di là del vetro
più mi lasciano indietro
per il coraggio insieme
non so le regole del gioco
senza la mia paura mi fido poco

Ormai sono in ritardo per gli amici
per l’olio potrei farcela da solo
illuminando al tritolo
chi ha la faccia e mostra solo il viso
sempre gradevole, sempre più impreciso

E l’esplosivo spacca, taglia, fruga
tra gli ospiti di un ballo mascherato
io mi sono invitato
a rilevar l’impronta dietro ogni maschera che salta
e a non aver pietà per la mia prima volta

All You Need Is Love

Si censura la controinformazione sui CIE

Immagine della testata del sito http://hurriya.noblogs.org/

Leggo che è arrivata una richiesta di “sequestro preventivo” di una pagina ospitata – come questo blog – su noblogs.org.

La pagina in questione è la cronaca di un terribile soppruso vissuto da un migrante illegalmente detenuto nel CIE di Ponte Galeria, a Roma.

Per questo motivo lo copio, per intero, dal sito in questione:

Due giorni fa un recluso del Centro d’identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, davanti ad insulti e privazioni da parte del personale in servizio, ha scelto di rispondere verbalmente ai soprusi.
Polizia e carabinieri si sono quindi scatenati con un pestaggio in piena regola, così come raccontano gli altri reclusi presenti.

Il ragazzo è stato successivamente condotto in una cella separata dalle altre, in una sezione del lager lontana sia da quella maschile che da quella femminile.

Ciò che è avvenuto in questi due giorni d’isolamento è lontano dalla sua memoria; gli altri reclusi raccontano che dopo un’iniezione di psicofarmaci non ricorda nulla e lo descrivono come una persona ad oggi distrutta.
Sembra anche ricorrente la minaccia di iniezioni di psicofarmaci in occasione dei momenti di rabbia dei ragazzi rinchiusi nel campo d’internamento etnico alle porte di Roma.

Impossibile non ricordare un precedente episodio avvenuto nel maggio del 2013, quando un recluso, in seguito ad una puntura del medico in servizio, aveva iniziato a gonfiarsi, ad avere difficoltà respiratorie ed essere privo di ogni forza tanto da non riuscire ad alzarsi dal letto per giorni.
Questo episodio venne alla luce solo grazie ad una protesta messa in campo dai reclusi della sezione maschile che culminò con uno sciopero della fame compatto.
Dopo qualche giorno i media di regime celebrarono con la direzione del centro, affidata alla cooperativa Auxilium, le scuse da parte del medico in servizio nei confronti del ragazzo che ancora versava in pessime condizioni. Per mettere a tacere tutto, la direzione dichiarò anche un cambio di guardia del suddetto.

Le pratiche d’oppressione non sono cambiate, frutto di una lunga tradizione o degli stessi aguzzini in servizio.

Di seguito pubblichiamo il comunicato dei reclusi di Ponte Galeria, che nel maggio del 2013 denunciavano il trattamento che il medico aveva destinato al ragazzo:

“Noi tutti di questo centro abbiamo deciso di dare inizio ad una protesta pacifica iniziando il rifiuto del cibo che ci viene consegnato per tutto il tempo necessario finchè non vengano esaudite le nostre richieste sotto indicate:

1. Chiediamo che le procedure siano molto più rapide

2. Che il servizio sanitario sia molto più efficiente

3. Che non venga più usata violenza, fisica o psichica, contro di noi (giorni fa è stata somministrata una puntura di psicofarmaci ad un ospite, contro la sua volontà, che ha avuto una reazione dannosa alla salute provocandogli gravi danni. Ancora oggi non può parlare e ha la faccia gonfia)

4. Che venga accolta la richiesta di chi chiede l’espatrio il prima possibile senza trattenimenti di lungo periodo

5. Che le notifiche vengano tradotte nella lingua di origine

6. Che le visite dall’esterno vengano facilitate senza tanta burocrazia

7. Che i tossicodipendenti vengano accolti in un’altra struttura adatta alle loro esigenze di recupero

8. Che chiunque abbia uno o più carichi pendenti possa presenziare al suo processo in modo che non venga condannato in contumacia

9. Per queste e molte altre motivazioni i centri come questo di Ponte Galeria schiacciano la dignità delle persone e andrebbero chiusi per sempre

Noi motiviamo il nostro sciopero della fame, 
ora voi motivateci il perchè dobbiamo espiare una pena senza aver commesso un reato.”

“Internet Bene Comune” al Teatro Valle senza i protagonisti

Volantino di presentazione di "INTERNET BENE COMUNE o CATTURA E SORVEGLIANZA DELL’INTELLIGENZA COLLETTIVA?" al Teatro Valle Occupato a Roma sabato 5 ottobre
INTERNET BENE COMUNE o CATTURA E SORVEGLIANZA DELL’INTELLIGENZA COLLETTIVA?

Leggo con interesse che sabato scorso, al Teatro Valle Occupato di Roma si è tenuto un interessante incontro dal titolo “INTERNET BENE COMUNE o CATTURA E SORVEGLIANZA DELL’INTELLIGENZA COLLETTIVA?“.

Un dibattito necessario, visto quel che si è appreso ufficialmente con il “caso Snowden“. Un incontro in cui ragionare su come comportarsi, oggi, nell’usare Internet come piattaforma di comunicazione di chi si ribella – in tanti modi diversi – al sistema di cose presenti.

Quindi, prima di tutto, complimenti a chi organizzato la cosa: era, ed è, necessaria.

Appreso dell’evento sono andato a vedere chi partecipava:

Federico Primosig attivista e filosofo, Carlo Formenti, Jeremie Zimmerman, Maurizio Lazzarato, Stefano Rodotà (uau), Evgeny Morozov, Smari McCarthy, Francesca Bria, e l’onnipresente Bifo; cioè intellettuali, ex attivisti. Pensatori, insomma. Benissimo.

E la ciccia? C’è ovviamente, quell@ del Teatro Valle mica sono degli ingenui!

“Ore 18:30

Seguirà una tavola rotonda su Il ruolo di Internet per i movimenti sociali, l’organizzazione dal basso e la partecipazione dei cittadini alla politica” a cui parteciperanno molte importanti esperienze politiche e di movimento italiane e internazionali quali la Costituente dei beni comuni, Laboratorio Acrobax, Movimento 5 Stelle, Partito Pirata islandese, La Citizen Foundation islandese, Movimento passe livre Brazil e il M15 spagnolo.

La tavola rotonda sarà moderata dal Teatro Valle Occupato”.

Evviva, anche “il Movimento” prende la parola, ci voleva qualcuno che parlasse della comunicazione in Internet partendo dal punto di vista di chi la fa, la comunicazione.

Quindi tutto bene, finalmente un’iniziativa in cui si vola alti – con la teoria portata dagli intellettuali – ma anche bassi – con la pratica di chi le cose le fa.

Eppure c’è qualcosa che non mi tornava, in quest’iniziativa. Il solito rompicoglioni, mi son detto. Mi sono andato a rivedere gli interventi – tutte persone di alto livello, preparate, che hanno anche fatto cose importanti. E quindi, che mi manca?

Mi manca, in questo bell’incontro di Movimento, chi, nel Movimento, da anni – e per anni si intende qualcosa che va dai 20 ai 12 – tiene in piedi l’infrastruttura della rete del Movimento italiano (e non solo).

Di chi sto parlando?

  • di Isole nella Rete (http://www.ecn.org), che è sul web ed offre spazio al movimento dal 1996 (e come BBS da ben prima);
  • di Autistici/Inventati (http://www.autistici.org), che offre anche di più ormai dal 2001:
  • senza parlare di quegli hacklabs – il Freaknet di Catania su tutti, perché il più anziano (http://www.freaknet.org/hacklab/), e Avana di Roma (http://avana.forteprenestino.net/); ma ce ne sono pure altri, a Firenze, Torino, Milano … – che, pure loro, da decenni offrono spazio, cultura, in/formazione sul mondo dell’informatica e della rete. DENTRO il Movimento.

Loro non ci sono. Loro sono quelli che fanno il grosso del lavoro, che hanno le competenze tecniche – e POLITICHE – ma che non vanno fatti parlare.

Perché? Boh, ormai l’unica risposta possibile è questa: non c’è un motivo.

O forse si: perché è gente che NON è in una CORRENTE del Movimento, ma le attraversa tutte. E quindi – tanto per parafrasare il titolo del convegno – “anche se è un bene comune non si può sorvegliare e catturare nelle maglie delle identità”.

 Ancora? Che tristezza…