Partiamo da una data, per comodità: settembre 2008, scoppia la Crisi, con la C maiuscola. E’ una crisi finanziaria, cioè causata dalle speculazioni finanziarie, dalla globalizzazione della finanza, dalla trasformazione della produzione che è diventata sempre più cognitiva – dicono quelli che ci capiscono – ma che è diventata sempre più altrove e non da noi: in Cina, India – in condizioni di vita che da noi erano già contestate nell’800 – in America del Sud. Una crisi finanziaria che mette in crisi il sistema bancario, immediatamente salvato con botte di centinaia di milioni di euro e di dollari.
Presi da dove, ‘sti soldi? Dallo stato sociale, ma naturalmente! E quindi giù tagli verticali, come ama definirli il nostro amato – ed amatissimo in Europa – ministro Tremonti, già candidato a sostituire il fava del Berlusca. Tagli che vanno a toccare tutti i ceti meno abbienti, e pure il ceto medio, tanto che proprio oggi esce la notizia che
il quarantacinque per cento della ricchezza italiana è in mano al 10 per cento delle famiglie. Lo segnala Bankitalia nel supplemento al bollettino statistico dedicato alla ricchezza delle famiglie alla fine del 2008. Al contrario, il portafoglio della metà più povera degli italiani non arriva ad avere neppure il 10 per cento della ricchezza complessiva. Insomma, la forbice si allarga e lo Stivale fa i conti con poche famiglie ricchissime e molti italiani che tirano a campare.
Così ci racconta Peacereport, ma così ci racconta anche la nostra esperienza diretta, fatta di sempre maggiori sacrifici, difficoltà continue ad arrivare alla fine del mese, rischi d’insolvenza, niente ferie, etc etc.
Non ho indicatori in mano (e se qualcuno li avesse, evviva!), non sono un esperto di cose economiche, ma penso sia sotto gli occhi di tutti la condizione della maggior parte delle persone oggi: lavoro precario, costo della vita elevato, strade per la crescita personale sempre più anguste. Condizione che si fa disperata anche per altri due fattori, diciamo psicologici:
- l’essere figli del boom economico, per molti di noi, significa aver vissuto una parte della nostra vita nel miraggio, viene da dire oggi, della piena occupazione, della carriera, nel raggiungimento della soddisfazione personale (parlo a livello di visone piccolo borghese della vita, come si diceva una volta);
- viviamo in una società che ci dice continuamente “consuma, solo chi consuma ha successo, è un vincente. Consuma!“. Ma se non ho i soldi, mi posso consumare solo il fegato…
E non è solo questione economica, quella della crisi italiota, ma generale: una classe politica – nazionale e locale, di maggioranza e d’opposizione – sempre più oligarchica e chiusa, un livello culturale mainstream che c’è da piangere e basta.
Da metà degli anni duemila sono andato in pensione politica: non sono più dentro a nessun movimento reale, bazzico annualmente la comunità hackmeeting, con sempre minor entusiasmo, a parte i fantastici rapporti personali, vivo alla periferia del buco del culo del mondo, nella frazione di montagna di un comune di ben 2000 abitanti: quindi non ho da tempo “il poso della situazione” del “movimento”; in questi anni, però, mi sono completamente immerso nel “mondo normale”, quello fatto dalle persone che lavorano – chi più, chi meno faticosamente – hanno figli, e la sera la televisione (tolte rarissime eccezioni).
Ho quindi potuto vivere, in questi 6 anni, e vedere e capire, cosa significa “essere normali” nell’epoca del berlusconismo. Ma famose a capì: per berlusconismo non intendo tanto o solo l’epoca di Silvio Berlusconi; intendo un carattere generale della politica nazionale, che inizia col disfacimento della potenza sovietica e col conseguente suicidio del comunismo – cioè, in grandissima parte, dello stalinismo italiano. Senza che questo portasse ad un lavoro di ricostruzione di qualcosa di nuovo (se non a chiacchiere). Ecco, quindi, l’abbraccio mortale con l’idea maggioritaria (liberista, se guardiamo la cosa da un punto di vista tecnico – istituzionale), il referendum del 1993 (notare la data), la follia del partito leggero (dove sei Woooooolteeeeerrrr!), e la fine di qualsiasi ipotesi alternativa al liberismo dagli orizzonti principali del pensiero politico italiano: da una parte un reducismo triste che manco il WWF (senza offesa per nessuno, l’attuale Federazione della Sinistra è un coacervo del peggio del peggio del periodo precedente la caduta del Muro), dall’altro un neo-centrismo senza idee e una sinistra radical-sciocca fatta di Leader (tutti maschi e tutti con la maiuscola, ci mancherebbe); è in quest’ultimo fronte che abbiamo l’esempio più lampante di come il berlusconismo abbia colpito ed affondato anche quel poco di “sinistra” rimaneva ipoteticamente all’orizzonte: Nichi Vendola.
Non un’idea, non un progetto, non un sogno, non un ideale, nulla se non UN UOMO: Nichi! (mi verrebbe da dire A NOI!, poi però qualcuno si offende…). E le Fabbriche di Nichi, e Nichi candidato alle primarie di non si sa bene cosa (del Pd? del Centro – Sinistra? dell’associazione Ufologi Autonomi? Boh…), Nichi in copertina, Nichi alla televisione, Nichi su Youtube… e du’ coglioni ‘sto Nichi!
Agli ideali, all’ideologia (si), al pensiero, al sogno (“Per conquistare un futuro bisogna prima sognarlo“, Marge Piercy) hanno sostituito il (caro) Leader, il Capo, la Personalità, il Tecnico. Anche a “sinistra”. Di conseguenza, e non poteva essere altrimenti, noi non siamo più cittadini, ma consumatori.
E i consumatori, in quanto non cittadini, non devono partecipare, ma produrre (come si
diceva una volta, produci, consuma e crepa): quindi sono stati spazzati via tutti quegli organismi di partecipazione che il movimento s’era conquistato in anni di battaglie e lutti: le circoscrizioni, i consigli di fabbrica, i comitati di quartiere, etc etc; via anche le Provincie, tanto sono uno spreco di soldi (non sono produttive!), così come le Comunità montane e tutte quelle istituzioni che facevano – potenzialmente – da filigrana di una vera democrazia, la possibile struttura di una democrazia sempre più diretta, in cui a partire dal paesino di 500 abitanti – il mio, per esempio – avevi una circoscrizione e da lì a salire fino al consiglio comunale, e poi a quello provinciale e poi a quello regionale e così via. Un processo democratico realmente dal basso, la famosa piramide rovesciata, che ormai non è nella mente manco di Vendola, appunto. Oggi ci troviamo col Podestà, di fascistissima memoria, col Sindaco duce. E la gente a casa, a guardare la tivù.
Quanto sopra, appena accennato malamente e sbrigativamente, è un meccanismo che
ormai ha quasi 20 anni; la personalizzazione della politica – polis, occuparsi della propria comunità – che è un meccanismo che ha toccato anche i movimenti (do you remember i portavoce?); il dominio dei mass media in ambito culturale; la crisi economica usata come grimaldello per privare sempre più ampi strati di popolazione dei propri diritti; tutto questo è stato vincente, da un punto di vista politico, sulla precedente generazione politica, quella mia per intendersi, figlia del ’68 e del ’77, che è stata sconfitta militarmente a Genova nel 2001 e che si è poi suicidata politicamente nei due tre anni successivi, col collasso dei Social Forum. Da allora siamo silenziosi, o quasi; non abbiamo più avuto la capacità di innovare nulla, manco in quei settori dove, anche se marginalmente, avevamo dato qualche segno d’ingegno – vedi l’uso creativo della rete tra i primi anni ’90 e l’inizio dei ’00; vedi l’uso creativo della musica, con le posse e il rap; vedi l’uso creativo degli spazi abbandonati, con incredibili capacità d’aggregazione e di meticciato saltuariamente espresse nella storia dei centri sociali. Tutto questo, questa cultura, questi luoghi, sono venuti meno, sono stati sussunti – quelli che sopravvivono – o sono stati spazzati via.
Ora è emersa una nuova generazione. I 20enni di oggi, quelli che ai tempi di Genova erano all’asilo e lo scenario attuale è l’unico che conoscono. Quelli nati col cellulare e la Play Station; quelli che non raramente sono precari figli di precari, e che se non cambiano le cose ora, direttamente, domani saranno col culo per terra, senza manco la possibilità di appoggiarsi – come abbiamo fatto noi, tutti noi – allo stato sociale italiota, la Famiglia. Per loro no future non è uno slogan da cantare, ma una condizione da cui fuggire, contro cui lottare. Sono i nuovi proletari, carne da macello cognitiva – direbbe sempre quello che ci capisce.
Devono crescere, devono fare le loro esperienze, devono trovare da soli la loro strada, senza vecchi barboni sconfitti che gli smantellino palle e ovai che consigli che non hanno diritto di essere dati. Il massimo che possiamo rivendicare noi, gli sconfitti della generazione precedente, è di averci provato (chi l’ha fatto, ovviamente); il massimo che possiamo fare per loro, è d’essere d’appoggio; o almeno non d’ostacolo.
Bello!
Segnalo, grosso modo sulla stessa lunghezza d’onda, l’articolo di sandrone dazieri su
nova100 de il sole 24 ore, dal titolo
“A proposito di cortei e buoni maestri”