Internet, dalle apps a Wikileaks: una svolta. Verso dove?

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Prendo spunto da un po’ di cose che sono successe e stanno succedendo negli ultimi mesi, per cercare di avviare un ragionamento, una proposta di riflessione ma anche di azione (chi è che diceva che teoria e prassi devono sempre andare di pari passo?).

Sicuramente lo spunto principale è la faccenda Wikileaks, e tutto quello che sta succedendo da che è scoppiato il caso cablegate.

Di punto in bianco un sito importante e conosciuto come quello di Wikileaks s’è trovato sotto attacco, con lunghi momenti di buio totale, senza più dns, senza più copertura finanziaria (gli hanno chiuso il conto su paypal, la visa e la mastercard, etc etc), col solo supporto pratico della comunità hacker e di chi si occupa di libertà della rete. Sicuramente c’è stata anche una bella e pronta reazione da parte nostra, ma con che reale possibilità di incidere?

Un attacco pubblico, frontale, come non se n’erano mai visti primi – a mia memoria. Tutta la retorica della rete libera, della democrazia e bla bla bla è stata accantonata in un attimo.

Con che conseguenze per tutt@ noi?

Su “Affari e finanza” di Repubblica di lunedì 6 dicembre è uscito un bell’articolo di Valerio Maccari, che a mio modesto avviso fa benissimo il punto della situazione, mettendo al centro dell’attenzione i nodi salienti di tutta la vicenda, dal punto di vista della libertà.

Mentre gli esperti del Dipartimento di Stato studiano il modo per incastrare Julian Assange ed escludere WikiLeaks da Internet, prosegue anche su un altro fronte la cyber war negli Usa. Nella notte tra il 25 e il 26 novembre, la divisione Immigration and Customs Enforcement (Ice) del Department of Homeland Security ha infatti improvvisamente chiuso, senza alcun preavviso, 82 siti legati a vario titolo ad attività ritenute illegali dalle autorità statunitensi. Tra gli obiettivi dell’attacco blog, motori di ricerca e portali di ecommerce, accusati di ospitare copie non autorizzate di materiale coperto da copyright o di vendere merce contraffatta.

E già qui si potrebbe discutere: negli ultimi 3 anni tutte le volte che ho dovuto scaricare una qualche versione di Ubuntu GNU/Linux, che fosse per il mio desktop o per altro; così come per qualsiasi altra distribuzione GNU/Linux, ho usato bittorrent; ora cosa uso? Che si fa, se qualcuno condivide qualcosa di illegale si chiude tutto un sito? Dovesse valere lo stesso principio, se uno sbirro ammazza di botte un ragazzo di 20 anni, magari per strada a Ferrara che si fa, si chiude tutta la questura? (SI, direte ovviamente voi, ma è un altro discorso… forse…)

La chiusura, la prima di massa, è avvenuta attraverso il domain name seizure: l’Icann, l’ente misto pubblico/privato statunitense che si occupa dell’assegnazione di domini e indirizzi ip, su ordine delle autorità federali ha ritirato ai siti in questione l’indirizzo web, rendendoli di fatto inaccessibili agli utenti. Secondo l’Ice, l’operazione è stata una legittima difesa contro chi infrange il diritto d’autore. Ma l’attacco ha sollevato i dubbi dei sostenitori dell’Internet libera, che ritengono sospetta la concomitanza con la vicenda WikiLeaks. E che sottolineano come l’operazione il cui scopo ufficiale è il ripristino della legalità – sia stata in realtà illegale: lo shutdown dei siti, infatti, è avvenuto senza preavviso né notifica da parte di un tribunale ai titolari, come per altro previsto dal Digital Millenium Copyright Act. Ma soprattutto, il dubbio che attanaglia gli americani è se dietro le chiusure non ci siano preoccupazioni antiterrorismo.

Operazione che ha straordinarie somiglianze con il Norwegian crackdown, quando per sequestrare UNA mail è stato posto sotto sequestro tutto un server, con le sue migliaia di utenti etc etc etc. Il tutto a poche settimane di distanza …

La Electronic Frontier Foundation, un gruppo no profit di attivisti per le libertà civili sul web, fa notare inoltre che nella lista di indirizzi resi inaccessibili figurano anche onsmash.com e rapgodfathers.com, siti che non hanno niente a che vedere con attività illegali. “I due siti in questione – si legge in una nota della EFF – erano a posto con le norme di distribuzione di materiale protetto da copyright, essendo autorizzati dagli autori”. Solleva perplessità e preoccupazione anche la chiusura di torrentfinder.com, un motore di ricerca che permette di trovare sulla rete i file torrent, utilizzati per scaricare documenti attraverso il protocollo BitTorrent. File spesso usati per download illegali, ma di cui il sito ne permetteva solo la ricerca sul web. Come Google, del resto.

Ma che sia questo il vero problema, la pirateria? Io ci credo poco, e pare anche il bravo giornalista…

E sulla rete, adesso, si teme che gli Usa stiano iniziando una ritorsione verso la cultura del web libero, di cui i siti di ricerca e distribuzione di torrent (come insegna la vicenda Pirate Bay) sono una componente fondamentale. Anche perché questa cultura sarebbe colpevole di aver generato e di appoggiare lo “scomunicato” WikiLeaks, nuovo nemico giurato dell’amministrazione statunitense. Che tra i pirati, nell’accezione più ampia del termine, e WikiLeaks ci sia un’intesa è dimostrato dall’accordo sottoscritto ad agosto – proprio il giorno in cui Assange avrebbe compiuto una delle violenze sessuali di cui è accusato – dal sito di rivelazioni e Rick Falkvinge, fondatore e capo del Partito Pirata Svedese, una formazione politica che da anni si batte per una riforma in senso più liberale dei diritti d’autore. Falkvinge ha offerto a Wikileaks l’hosting e la banda, sostenendo una vicinanza ideologica con il sito di Assange, il cui “contributo è tremendamente importante per tutto il mondo”. E anche il guru dell’Hacking Richard Stallman, uomo simbolo del movimento del software libero, condanna l’attacco americano al web. “Le autorità americane – commenta nel suo blog – hanno chiuso un motore di ricerca torrent, senza processi e senza capi d’accusa. Ma non è illegale?”

Pirate Bay, Stallman, la EFF, tutte persone e situazioni che da anni, da decenni in alcuni casi, si battono per la libera circolazione dei saperi e delle informazioni, che lottano, con metodi e strumenti anche molto diversi, per una internet libera, aperta, decentrata, realmente democratica, nell’accezione della democrazia diretta. Ed ora, alla fine, i nodi vengono al pettine.

“Questo tipo di chiusure arbitrarie di massa – denuncia la EFF – sembrano la dimostrazione di quello che ci aspetta dopo l’approvazione del COICA bill”.
Espressione legale della linea dura invocata dalla Clinton, il Combating Online Infringement and Counterfeits Act, presentato dal senatore democratico del Vermont Patrick Leahy e approvato dal Senato lo scorso 18 novembre, dà in effetti al governo americano straordinari poteri per quanto riguarda il web, inclusa la possibilità di far scomparire dalla rete siti che ospitano anche solo link ad altri websites che infrangono le leggi di copyright. Una soluzione radicale, resa possibile dal fatto che la già citata ICann, un ente che in teoria è indipendente, cade in realtà sotto la giurisdizione federale USA.

E già! Perché, alla faccia della Net Neutrality, la gestione dei DNS a livello mondiale è in mano all’Icann, un ente neutrale con sede negli USA… Bisogna aggiungere altro? Come liberarsi da questo vincolo? Come essere sicuri – nei limiti di quanto si può essere sicuri in rete – che la propria presenza in rete non possa essere censurata alla radice?

Per questo, la comunità di attivisti della libertà sul web è già al lavoro per sottrarsi al controllo e alle ritorsioni statunitensi. Peter Sunde, volto dell’ormai defunto Pirate Bay, ha annunciato di stare portando a termine un sistema di assegnazione domini alternativo a Icann. “Vogliamo Internet priva di censure“, ha dichiarato sul suo Twitter. “Avere un sistema centralizzato che controlla il nostro flusso di informazioni non è accettabile. Utilizzando le tecnologie esistenti per la decentralizzazione e lavorando insieme ad abili programmatori e specialisti di rete, un sistema alternativo non è lontano“.

Musica per le mie orecchie autistiche! 🙂 Ricordo bene il progetto DNA – Domain Name Anarchy – presentato all’Hackmeeting del 2003, che era

un progetto di democratizzazione del domain name system, il sistema di conversione dei nomi a dominio in indirizzi IP che sovrintende una parte indispensabile del funzionamento della rete. Attualmente DNA ha come obiettivo la creazione di una rete parallela di DNS autoritativi per nuovi top level domain, proposti liberamente. Il vantaggio rispetto a progetti precedenti è l’integrazione con lo standard DNS, che ne garantirebbe un’agevole diffusione, invece di tentarne un’improbabile sostituzione. Tramite un database SQL e un server DNA, liberamente scaricabile dal sito, si possono cominciare a creare top level domain a richiesta, risolvibili sulla stessa rete di server DNA, appoggiati in maniera trasparente ai rispettivi server DNS. Al progetto è collegata una mailing list di discussione e coordinamento, che potrebbe far scoccare un’importante scintilla di nuova autorganizzazione dal basso delle strutture portanti di internet.

Un progetto poi abortito, ma non morto. Sempre dalla comunità dell’Hackmeeting italiano  – in particolar modo in quel covo di matti che è il Freaknet Media Lab di Catania –  è nato il successore di DNA, Netsukuku.

Tutti questi sono esempi di come una sensibilità verso questo tipo di problematiche sono  da tempo presenti nelle varie comunità acare del mondo, dalla Svezia a Catania appunto, e che qualcosa è già stato fatto, un ragionamento è iniziato. Ora c’è da metterlo in pratica, o almeno da iniziare a provarci. Prima che sia troppo tardi.

Anche perché l’era dell’Internet 2.0 sta iniziando, e non è detto che sia qualcosa che ci possa piacere, a noi amanti della libertà e dell’autorganizzazione. Come hanno iniziato a raccontare molto bene la banda di Mela marcia, la nuova Internet sarà quella delle Apps – cioè quelle piccole applicazioni per smartphone, ognuno col suo negozio online – il suo store – dal quale devi passare per poter installare qualcosa; spesso non libero, oltre che a pagamento; quella degli smartphone proprietari (tolte rarissime eccezioni, anche il tanto amato Android non è completamente libero); quella della doppia velocità, come ci hanno ben spiegato Google e Verizon: una velocità per il bisness e un’altra per il divertimento (e chi deciderà cosa è l’uno e cosa è l’altro? e chi deciderà cosa è più importante nella vita di una persona? e chi deciderà … ).

Forse è il caso che si inizi a ragionare su come riprendersi in mano questa Internet, questo luogo di condivisione e di socializzazione, che ormai pervade il nostro mondo occidentale (e non solo); capire se è possibile, e se siamo abbastanza maturi per farlo. O se, invece, c’è da iniziare a pensare ad un’alternativa…

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