Minchia, il Manifesto!!

Da non credersi: dopo anni di coma (almeno 11), possiamo annunciare commossi il (parziale? momentaneo, temo…) riemergere dal sonno (della ragione?) del Compagno "il Manifesto, quotidiano comunista".

Sul giornale di ieri, infatti, sono usciti non uno, non due bensì, tenetevi stretti e i deboli di cuore si seggano,  TRE articoli belli!!

Non "carini", "interessanti" o "simpatici"; non il solito corsivo meraviglioso di Robecchi; non la solita straordinaria vignetta di Vauro. Nulla di tutto ciò: proprio tre articoli, di cui due nella cronaca politica (ve l'avevo detto di sedervi…), e uno nelle pagine della cultura. 

Visto l'evento straordinario, mi sembra ad uopo riportarli nella loro intierezza, sì da poterli rileggere nei prossimi anni (la memoria, si sa, è fallace; e quando racconterò a mio figlio che "il Manifesto" era un quotidiano che scriveva articoli belli, avrò anche qualche prova, e non solo i deliri di un ottuagenario rincoglionito).

Partiamo (in ordine crescente di qualità, a mio modestissimo avviso):

Le due piazze di Rifondazione
 

Il 9 giugno «no Bush» a Roma mette in difficoltà il partito.
Che promuove ufficialmente il sit-in di piazza del Popolo. Ma molti «simpatizzanti», a partire da Action, saranno al corteo antagonista

 
Alessandro Braga

Roma

Rifondazione comunista starà con il piede in due scarpe. Ovvero, con i suoi militanti divisi in due piazze. Gestire politicamente la questione non sarà per niente facile.
Sabato a Roma arriverà George W. Bush e la piazza, come in qualunque luogo del mondo dove metta piede il presidente statunitense, si prepara ad accoglierlo con contestazioni. A Roma, le piazze saranno addirittura due: una stanziale, piazza del Popolo, dove la sinistra di governo assieme a Arci, Fiom e altre associazioni pacifiste ha organizzato una giornata di canti, balli e dibattiti per «suonarle e cantarle» a Bush; l'altra, in movimento, è quella della sinistra radicale non di governo, che attraverserà in corteo la città e, oltre a Bush, contesterà anche il governo italiano.
Non sarà una giornata di mobilitazione in cui ci saranno da una parte i «buoni» e dall'altra i «cattivi». Anche perché al corteo parteciperanno tante persone che sono elettori di quei partiti che se ne staranno a piazza del Popolo. Semplicemente, spiegano gli organizzatori del No Bush No War Day, quelli del corteo insomma, «ci saranno due manifestazioni perché agisce una contraddizione tra due piattaforme diverse tra loro rispetto alla visita di Bush, al ruolo degli Stati Uniti e alle responsabilità del governo italiano nella guerra permanente».
Fino alla fine, del resto, molti tra i partecipanti al corteo hanno cercato di dialogare con la piazza del Prc. Non certo i Cobas o il Partito comunista dei lavoratori, per cui la deriva governista di Rifondazione è inaccettabile da sempre ma, ad esempio, il Network delle comunità in movimento, che raggruppa tra gli altri Action, il centro sociale milanese Leoncavallo e addirittura i Giovani Comunisti, associazione giovanile dello stesso Prc.
Nunzio D'Erme ha dichiarato che «per il movimento è inaccettabile rinchiudersi in una piazza. Ma in quella piazza ci saranno tanti bravi compagni con cui vogliamo dialogare da subito». Resta il fatto, sottolineano però quelli del Network, «che di fronte alla venuta di un criminale di guerra rispondere con un concerto è inefficace. Come è improprio tacere le responsabilità del governo, soprattutto dopo che Prodi ha rivendicato la decisione di portare a termine il progetto Dal Molin».
Come per la manifestazione contro l'ampliamento della base americana di Vicenza, la patata bollente resta in mano a Rifondazione comunista. Allora, il problema era se «Vicenza valesse un governo». Ora, se è sufficiente un concerto, con contorno di dibattiti, per manifestare la propria contrarietà al presidente americano in visita in Italia.
Per il gruppo dirigente di Rifondazione pare proprio di sì. Michele De Palma, della segreteria nazionale, ha spiegato che «la manifestazione a cui aderirà il Prc sarà diversa da quella organizzata dai gruppi dell'estrema sinistra non di governo». Un piede qua e uno là insomma, un occhio alla piazza e uno agli alleati di governo. Che questo basti ai militanti della base non è così sicuro. Almeno a giudicare dalle adesioni al corteo di pezzi del Prc: da alcuni deputati a consiglieri comunali di tutta Italia, fino a semplici militanti, saranno molti i rifondaroli che marceranno contro Bush. Tutta l'area di Sinistra Critica sarà al corteo e non a piazza del Popolo. Di più, i Giovani comunisti fanno parte del Network delle comunità in movimento, tra i promotori del corteo. E il Network guarda alla Sinistra europea come cantiere praticabile per l'unità dei movimenti. Se ciò non avvenisse, dicono, «Sinistra europea rischierebbe di nascere già morta per via di un processo che coinvolge i partiti politici istituzionali, ma che bypassa il dibattito politico vero». Il rischio per Rifondazione non è solo quello di perdere contatti con il movimento, ma con i suoi stessi militanti e elettori.
Le ultime elezioni amministrative hanno già dato un segnale in questo senso: il Prc ha pagato con un sensibile calo di consensi il suo primo anno di governo. Un'ulteriore ambiguità potrebbe aumentare il numero di quegli elettori che si ritroverebbero costretti, non sentendosi più rappresentati, a scegliere alle prossime tornate elettorali la via dell'astensione.

 


La guerra dei media
 

433 feriti tra i poliziotti, 500 tra i no global. E i giornali tedeschi che titolano sullo «shock di Rostock». Ma negli ospedali sono finite in tutto una settantina di persone, nessuna in gravi condizioni. Ecco cos'è accaduto davvero sabato

 

Guido Ambrosino

Rostock

Nel fine settimana la guerra l'hanno fatta i media. Gli incidenti di sabato, a margine della manifestazione contro l'imminente riunione del G8 vengono presentati come «un'orgia di violenza» di inaudita brutalità, con «mille feriti». In prima fila tra quanti soffiano sul fuoco l'incorreggibile Bild Zeitung, che trent'anni fa Heinrich Böll definiva a ragione «fascistoide», e che tale è rimasta. «Volete i morti, voi Chaoten?» è la minacciosa domanda retorica sparata a titoli cubitali in prima pagina. Il messaggio è chiaro: attenti voi, scatenati agenti del caos, che la prossima volta spariamo. I testi, e la sapiente spettacolarizzazione delle foto più violente, funzionano come un incitamento a estrarre le pistole: «La nostra libertà e la nostra sicurezza dipendono dalla forza dello stato», spiega l'editoriale. Anche la stampa locale, in una piccola città davvero non abituata a scontri di piazza, va sopra le righe. «L'incubo», titola la Neueste Nachrichten, «Lo shock di Rostock», le fa eco la Ostsee Zeitung. Effettivamente la stima di «mille feriti» è impressionante, fa pensare a una vera battaglia guerreggiata. Ma anche la statistica viene usata come arma di propaganda, e conviene fare la tara.
I feriti tra la polizia sono andati stranamente aumentando nella notte, tranquilla, tra sabato e domenica. Sabato sera – a scontri conclusi – gli agenti lamentavano 146 feriti tra le proprie file. Alla conferenza stampa di domenica erano diventati 433, di cui trenta «gravi». Viene considerato ferito grave chi deve ricorrere alle cure di un ospedale, per una medicazione al pronto soccorso o per cure più serie. Si sa di un agente con una frattura esposta. Di un altro con una non preoccupante commozione cerebrale, l'unico ancora ricoverato domenica in clinica, dove è andato a visitarlo il ministro regionale degli interni del Meclemburgo, il democristiano Volker Bouffier. Tolti i trenta feriti gravi, per gli altri 400 si tratta di contusi, che hanno segnalato i loro acciacchi solo dopo la fine del servizio o il giorno dopo.
Gli organizzatori della dimostrazione, ammaestrati dal disinvolto uso della statistica da parte della polizia, ne hanno seguito l'esempio, lamentando da parte loro 520 feriti. Sommati ai 433 tra gli agenti, si avvicinano alla spaventosa cifra a tre zeri. Ma, da quanto ci ha confermato l'ospedale di Rostock, solo 70 persone, o forse qualcuna di più, si sono rivolte al pronto soccorso cittadino. Tolti i 30 poliziotti di cui abbiamo già detto, deve averlo fatto anche una quarantina di dimostranti. Gli altri, compresi quelli scivolati per terra o spintonati dai compagni nelle fughe dalle cariche, se la sono potuta cavare con un cerotto o una fasciatura alla buona. Sembra poi strano che una furibonda guerra urbana si sia conclusa con soli dieci arresti. Tanti sono stati i provvedimenti confermati dalla magistratura, non uno di più, su un totale di 128 persone fermate. Tenute in cella anche dieci ore per «identificarle» ma poi rilasciate. Anche se alcuni, non sappiamo quanti, saranno sicuramente denunciati per i soliti reati di violenza, resistenza e «turbamento dell'ordine pubblico». Tra i fermati qualche straniero, ma nessun italiano.
La maggior parte di questi fermi e la settantina di feriti si sarebbe potuta evitare se la polizia non avesse fatto un'incredibile serie di «errori». Non c'era, sabato a Rostock, nessuna zona rossa da difendere. I capi politici sono ancora lontani mille miglia. L'unica partita da giocare era tutta «politica», di immagine, per dimostrare, per dirla con la Bild Zeitung, che lo stato è «forte». Oppure, sul versante opposto dei gruppi radicali, che così inattaccabile non è. La polizia voleva tenere sotto controllo qualche migliaio di Autonomen che, sopraggiunti in coda al corteo sulla lunga spianata che costeggia il molo del vecchio porto, si attardavano sul lungofiume, a ridosso delle stradine che risalgono verso il centro. Sarebbe bastato bloccarle, quelle stradine, con dei discreti cordoni a un centinaio di metri dal corteo. E anche i più «violenti» del blocco nero avrebbero dovuto alla fine rassegnarsi a subirsi una chilometrica serie di comizi altermondialisti con successivo concerto. È invece successo che squadrette di agenti in borghese si gettassero su qualche incappucciato in mezzo alla gente che girovagava sul piazzale, subito coperte da energumeni in tenuta antisommossa che facevano il vuoto attorno (una di queste scene è documentata da un video sul sito di indymedia). Poi l'infelicissima manovra di un'auto della polizia, senza protezioni ai finestrini, che si è venuta a trovare tra il marciapiede e il corteo che le sfilava accanto. È stata presa a calci, i finestrini rotti. L'agente alla guida – è uno dei feriti – ha avuto il buon senso di mettere in moto e di salvarsi svoltando su una strada laterale.
Dopo questo primo casus belli si sono susseguiti attacchi, senza capo né coda, per centurie che davano la caccia agli Autonomen fin dentro la folla che assisteva al comizio, per poi ritirarsi sulle posizioni di partenza senza aver concluso nulla. Se non essersi fatti bersagliare da bottiglie vuote e da sassi. E non si trattava di ciottoli. Il materiale da lancio veniva dalle piastre di cemento dei marciapiedi. Sollevate dal piano stradale e gettate a terra si frantumano in grosse schegge, pesanti anche più di un chilo. Non vanno lontano, ma se ti arrivano addosso fanno davvero male. Anche se si indossano le imbottiture e le corazze di plastica, che fanno sembrare gli agenti antisommossa degli androidi invulnerabili. Quelle bardature hanno l'effetto di ridurre le inibizioni degli attaccanti (neppure il più scriteriato Chaot getterebbe proiettili di quella stazza contro un agente in uniforme da passeggio). Ma non garantiscono protezione assoluta. Poi si è saputo che in questa fase erano saltati i collegamenti radio della polizia. Il responsabile del settore è rimasto irraggiungibile per un paio d'ore. Le centurie, fatte venire da tutta la Germania, e tra queste alcune «cattive» da Berlino o dalla Baviera, facevano ognuna quel che gli pareva. Tuttavia tra le quattro e le cinque tutto si era calmato. Gli agenti erano arretrati, fuori tiro. La folla si era ricompattata attorno al palco dei comizi.
Ma non era finita. Qualche cervellone ha spedito sul posto idranti e bulldozer, e sono partite le prime salve di lacrimogeni. Il tutto con più spiegamento di mezzi, ma ugualmente senza concetto, perché nessuno se l'è sentita di disperdere la folla che assisteva al concerto, dove i frombolieri potevano sempre trovare riparo. Tre auto sono state incendiate, ad altre due sono stati rotti i finestrini. Danneggiamenti inutili e gratuiti. Ma nulla di paragonabile alle «devastazioni» di cui favoleggia la Bild, con danni di milioni di euro. «I danni sono tutto sommato contenuti», dicono al comune di Rostock. La Bild fa il suo solito mestiere, stupisce invece che seri quotidiani italiani ne riprendano le panzane come se fosse la Bbc.

 


Perché le forze dell'ordine hanno sempre ragione
 

C'è una nobile gara tra destra e sinistra nell'esprimere appoggio incondizionato ai tutori dell'ordine pubblico, considerando ogni minimo dubbio sul loro operato un oltraggio, una bestemmia, un tradimento Il sentimento di diffusa precarietà è tradotto dai teorici della toleranza zero in un problema di contenimento e lotta senza quartiere contro le «classi pericolose». Da qui il baratto tra una rinuncia o una limitiazione di alcuni diritti civili in ca

 

Marco Bascetta

La virtù cardinale del «moderatismo», nella dialettica politica delle democrazie parlamentari occidentali, è motivata da una presunzione e da una tautologia tra loro intimamente collegate. La presunzione è che in un «paese civile» la posizione moderata sia, per definizione, maggioritaria. La tautologia è che è maggioritaria perché moderata e, viceversa, moderata perché maggioritaria. Orbene, tra i pilastri fondamentali del «moderatismo» politico corrente va annoverato il seguente principio: «la polizia ha sempre ragione», dove per polizia si intendono tutte le forze dell'ordine, dalla polizia di stato ai carabinieri alla guardia di finanza. Si può sensatamente sospettare che un simile punto di vista non sia affatto condiviso dalla maggioranza, ma è questo uno dei casi in cui la validazione tautologica funziona senza ammettere obiezioni. Che lo stato e i suoi amministratori di turno apprezzino e difendano le loro forze dell'ordine, che queste occupino uno spazio permanente nella retorica ufficiale è una circostanza del tutto normale quando non sconfini, come spesso è accaduto e continua ad accadere, nella copertura di abusi e vessazioni.
Ma ciò cui assistiamo quotidianamente in una nobile gara tra destra e sinistra è la pretesa che i cittadini «amino» incondizionatamente i tutori dell'ordine pubblico e ne invochino assiduamente la protezione, assolvendone pregiudizialmente qualsiasi comportamento e rinunciando a strumenti di controllo e garanzia che ne sorveglino l'operato.

Le grane di Moltalbano

Tanto sforzo alimenta, per inciso, il dubbio che questo amore non sia così diffuso, né così agevole da suscitare. Chi non ha mai subito nel corso della vita qualche episodio di arroganza, o peggio, da parte degli uomini in divisa? In ogni modo dalla scuola ai media, dalla cosiddetta pubblicità istituzionale alla fiction televisiva, tutto è una grande anelito di amore per polizia, carabinieri e guardia di finanza. Non c'è fiera in cui gli uomini del ministero degli interni non allestiscano allegri stand dove chiassose scolaresche vengono accolte e condotte da simpatiche poliziotte attraverso l'affascinante mestiere del detective. Concorsi di disegno, di prosa e di poesia, incitano gli scolari a trovare i migliori colori o le migliori parole per ripagare l'amico poliziotto del suo aiuto e del suo sacrificio. Infinite serie televisive alimentano una immagine patinata delle forze di polizia, dove la violenza si presenta solo come sereno ed equilibrato impiego di una forza rispettosa dei diritti e della dignità di tutti, con contorno di pensose riflessioni sulla difficoltà di discernere il bene dal male, sul peso del dovere e altri drammi sentimentali. Per non parlare dell'enfasi apologetica che circola in tutte le sedi istituzionali. E quando Andrea Camilleri osa mettere in bocca al suo simpatico commissario Montalbano qualche battuta amara sullo scempio di Genova, la Rai pianta una grana. Quanto ai politici, non perdono occasione di esprimere la propria solidarietà e vicinanza alle forze dell'ordine, le cui prerogative, ampliate a ogni legislatura, sono comunque assolte da ogni sospetto di eccesso o di devianza. E se, sporadicamente si affaccia qualche timida richiesta di controllo, viene accolta come un vero e proprio affronto, una bestemmia, un tradimento.
Quelle poche volte che il marcio viene a galla, la stampa si guarda bene dal darvi eccessiva importanza. Non v'è paragone tra lo spazio dedicato a qualche scritta irriverente o minacciosa sui muri delle nostre città e quello assai modesto riservato ai troppi soggetti «molesti», riportati all'ordine un po' troppo con le cattive e talvolta con tragiche conseguenze.
In realtà tra sinistra e destra qualche lieve differenza c'è. Mentre l'amore della prima si estende anche alla magistratura, quello della seconda assai meno. E non solo perché può accadere che qualche personaggio eccellente finisca sotto processo, ma soprattutto perché se il cittadino «moderato», almeno così si è inclini a pensare, non rischierebbe mai di finire nel mirino della polizia (puntato essenzialmente sulle cosiddette classi pericolose) rischia invece di finire in quello della magistratura. Quest'ultima, infatti, è chiamata a confrontarsi, almeno in teoria, con tutta l'articolazione dei comportamenti sociali (che comprendono le forme «borghesi» del crimine) e la complessità del sistema giuridico, e quindi a giudicare, con la conseguente possibilità di giudicare male.

La norma dell'impunità

La polizia, invece, non giudica, agisce, e dunque non può sbagliare. L'errore giudiziario è contemplato nel dibattito pubblico, l'arbitrio di polizia non lo è. Tra gli argomenti preferiti della propaganda di destra figura l'accusa rivolta alla magistratura di metter fuori i criminali che la polizia con rischio e fatica cattura. Ma se il giudizio sulla magistratura può divergere, secondo le stagioni e le convenienze, quello, implicito, sull'infallibilità della polizia è assolutamente unanime. Tanto che la politica, pur di non dovervi rinunciare, preferisce prender di mira la politica stessa, beninteso nelle vesti dell'avversario. La vicenda delle violenze poliziesche di Genova, dei reati e dei depistaggi messi in opera per coprirle è assolutamente esemplare. Pur di assolvere gli esecutori materiali della mattanza nelle vie della città, nella scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto e i loro comandanti, l'opposizione puntò l'indice, sulla «gestione politica» della piazza e sulla presenza dell'allora vicepremier Gianfranco Fini nella sala operativa della questura. Laddove si lasciava intendere che se le forze dell'ordine avessero potuto agire secondo la propria esperienza e i propri metodi, le cose sarebbero andate molto diversamente. Se, nella chiacchera corrente il marcio nel mondo politico è ben rappresentato, l'azione di polizia resta sempre al riparo da qualunque critica o sospetto. Solo pochi, nel trionfo generale di una riscrittura statolatrica della storia degli anni '70, hanno avuto il coraggio di ricordare quanto l'onnipotenza, l'impunità assoluta dei «cittadini al di sopra di ogni sospetto» e del lavoro sporco che spesso furono destinati a svolgere, avrebbe alimentato l'escalation della violenza politica. È un miracolo, dovuto all'intelligenza politica dei movimenti, che l'errore, ripetuto dopo lo scempio di Genova, non abbia determinato analoghe conseguenze.

L'arbitrio dei «normali»

L'exemplum virtutis sotto forma di azione di polizia è alimentato da almeno tre elementi decisivi dell'ideologia «moderata». Il primo è rappresentato da un discorso pubblico che convoglia i numerosi fattori di incertezza e precarietà della vita contemporanea verso una idea di «insicurezza» che reclama protezione, intesa a sua volta esclusivamente come ordine pubblico. Il cittadino è spinto a considerarsi in primo luogo «potenziale vittima del crimine» e dunque disposto a progressive rinunce in fatto di diritti, pur di essere protetto dalla minaccia che incombe. Che la sicurezza possa consistere anche nell'essere al riparo dall'arbitrio di chi esercita un pubblico potere, in diritti, garanzie e prerogative individuali, è un significato bandito dall'ordine del discorso dominante. Questa scissione e riduzione dell'idea di «sicurezza» è resa possibile da una polarizzazione estrema tra il mondo dei «devianti» e il mondo dei «normali». Dei primi dovrà dunque occuparsi esclusivamente la polizia a beneficio dei secondi.
Alla base di questa polarizzazione vi è il secondo elemento decisivo. Si tratta di un ragionamento, proveniente d'oltreatlantico, ma ormai saldamente radicato nel vecchio continente, che funziona pressappoco così: bisogna farla finita con tutte le «scusanti sociologiche» sulle radici sociali e ambientali del crimine, che hanno lungamente assecondato politiche tolleranti e velleità di integrazione, per tornare al sano principio secondo cui «non è la società ad essere responsabile del crimine, ma sono i criminali ad essere responsabili del crimine». Fin qui è il ripristino di un vecchio e incrollabile principio puritano e la riedizione collettivizzata della predestinazione calvinista. Tuttavia sebbene il crimine sia considerato il risultato del libero arbitrio individuale, il prodotto di una singola soggettività, per così dire, «votata al male» e predestinata alla dannazione esso infligge un danno che è di natura sociale. Ad essere colpita non è solo, né soprattutto, la vittima di quello specifico atto criminale, ma la società intera. Ed ecco che la società, scomparsa tra i fattori che condeterminano il crimine, si ripresenta, tuttavia, come sua principale vittima. Morale: la società è sempre buona e giusta, sono i singoli ad essere malvagi. O anche: il mercato è sempre buono, sono i singoli a conquistarsi la virtù del successo o il disonore del fallimento. L'indice puntato contro la responsabilità individuale, si traduce sempre e comunque in una difesa integrale dell'ordine costituito, che corrisponde però, in questo modo, anche a una sorta di «irresponsabilità sociale». È precisamente in questo punto che l'ideologia e la pratica neoliberista, divorziando dalla tradizione liberale e garantista, si intreccia con un incremento delle funzioni repressive dello stato. Minimo come stato sociale, massimo come stato di polizia. Come l'ideologia dell'«irresponsabilità sociale» sia poi conciliabile con le ripetute geremiadi sulla mancanza di valori e sul cinismo della società contemporanea resta avvolto nel mistero.
Resta comunque la centralità assoluta della repressione, sollevata da ogni condizionamento, dubbio o insufficienza. E la conseguente infallibilità di chi la esercita, ossia la polizia. Una volta respinta qualsiasi influenza degli squilibri sociali sui comportamenti devianti, ne risulta conseguentemente esclusa qualsiasi efficacia delle politiche sociali in questo ambito. A questo punto il ricorso alle forze di polizia per risolvere qualunque problema nelle più diverse sfere della vita civile non ha più argini. Esiste un problema di consumo di spinelli nelle scuole superiori? Si chiederà ai carabinieri di compiere azioni improvvise di controllo, con cani e quant'altro. A proporlo non è un governatore texano, ma il ministro della salute di un governo di centrosinistra in Italia!

Gli alieni da richiudere

Lo spropositato sviluppo del comparto della sicurezza (inteso nella sua dimensione poliziesca e penitenziaria) in tutto l'occidente, accompagna questo passaggio senza ritorno dai tentativi di integrazione all'organizzazione dei dispositivi di repressione investiti oggi di una missione, per così dire, «risolutiva». Ma la definizione «antisociologica» delle «classi pericolose», intese come bacino di individualità inclini al crimine, ha un'altra conseguenza assai rilevante. Sebbene questi gruppi sociali abitino il cuore delle società sviluppate, ne ripercorrano a loro modo aspirazioni e comportamenti, ne assumano abitudini e atteggiamenti, essi vengono considerati come corpi estranei, come un Altro irriducibile, o, detto altrimenti, come nemici stranieri. Un punto di vista che alimenta xenofobia e pulsioni razziste e, a sua volta, se ne alimenta. Ma, soprattutto configura l'azione di polizia come azione di guerra. Le forze dell'ordine appaiono così non più come una articolazione dell'ordine sociale, con i vincoli e i limiti che ne conseguono, ma come un esercito schierato a difesa della nazione e che le necessità della guerra assolvono da rudezze e prevaricazioni.

I moderati vanno alla guerra

Nell'emergenza della guerra, il punto di vista militare gode di una sua indubbia autonomia. Una molteplicità di esempi testimoniano come dalle banlieues francesi ai ghetti americani le forze di polizia agiscano come truppe combattenti in zona nemica. Forze d'occupazione in territori ostili. E così vengono sempre più percepite da una parte della popolazione, quella giovanile prima di tutto. L'espressione «guerra al crimine» è tutt'altro che metaforica, indica con precisione una progressiva affermazione della logica oltre che del linguaggio militare nelle questioni di ordine pubblico. Linguaggio ormai ampiamente assunto dai ministri degli interni di tutti gli orientamenti politici. Ma la «guerra al crimine» sposta anche sulle forze di polizia quella retorica dell'eroismo, un tempo riservata al soldato in tempo di guerra. L'agente di polizia, differentemente, per esempio, da un vigile del fuoco o da altri mestieri di pubblica utilità esposti al rischio, viene circondato da un'aura di eroismo e di martirio.
Ma vi è un ulteriore elemento di preoccupante irrazionalismo. L'infallibilità della polizia e quella continua domanda di dispositivi di controllo e di sorveglianza sempre più perfetti e pervasivi, che giustamente terrificavano gli spiriti liberali di un tempo, che vi vedevano l'essenza stessa del totalitarismo, deriva da un'idea, tanto bizzarra quanto pericolosa. E cioè che il potere non possa che essere buono, la democrazia irreversibile, le libertà, in fin dei conti, rispettate quanto basta. Cosa accadrebbe se un sistema di sorveglianza senza residui cadesse, qualora già non lo fosse, in cattive mani? Non ne abbiamo forse già avuto un assaggio con l'abuso delle intercettazioni telefoniche? Il 1984 di George Orwell, da spauracchio del liberalismo è diventato il sogno in via di realizzazione di sindaci di destra e di sinistra, l'obiettivo agognato di una governance integrale. Il culto della polizia non è che l'assoluzione preventiva di ogni potere e l'invito rivolto ai governati (che non può essere declinato) a cercare solo nella subordinazione la sicurezza e la felicità.

 

 

3 risposte a “Minchia, il Manifesto!!”

  1. @fastidio
    > soprattutto l’ultimo articolo, quello di bascetta sulla
    sicurezza è notevole e
    coraggioso. lo spirito che il manifesto non ha più da tempo

    e già, per me è stato uno di quegli articoli che alla fine dici, “vedi, ste cose le ho sempre pensate anch’io, ma vedi come le ha messe giù bene lui?”.

    cmq anche l’articolo di Ambrosino ha il merito, unico nel panorama mainstream (per quel che ho potuto vedere io) di far riferimento al video in cui si vede la polizia che inizia ad arrestare la gente senza che nulla sia ancora successo; e a ridimensionare il numero dei feriti.

    l’altro… niente di che, ma almeno “informa” in maniera non troppo indegna sul 9.

    tanta roba, di questi tempi…

  2. soprattutto l’ultimo articolo, quello di bascetta sulla sicurezza è notevole e coraggioso. lo spirito che il manifesto non ha più da tempo

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