Ciao Mario

Pochi giorni fa se ne è andato una dei grandi del jazz italiano, sicuramente uno degli ultimi, Mario Schiano.

Grazie a lui già nei primi anni ’60 anche in Italia (e in Europa) si iniziò a suonare quella roba strana e fuori dalla norma che si chiamava "Free Jazz", quando ancora da noi il jazz era sinonimo di balera o poco più.

Mario, però, non era solo un grande musicista, ma anche un compagno. Lo voglio ricordare con le parole di Luigi Onori sul manifesto dell’11 maggio:

 

Mario Schiano, il jazz nel cielo

Il freeman partenopeo si è arreso al male
che lo logorava da anni. Animatore culturale, trovò una via tutta
italiana al free jazz e si confrontò con avanguardie come il Living
Theatre e Fluxus
 

Luigi Onori

Lo spirito libero di Mario Schiano naviga
ora in un cielo di stelle: ieri (10 maggio) il suo corpo si è arreso al
male che lo logorava dal 2003 e il jazzista ha chiuso gli occhi nella
sua casa romana di via dei Panieri. Subito la notizia si è propagata
nella vasta comunità di quanti gli vogliono bene e lo stimano, una
famiglia di musicisti, critici, operatori, amici, intellettuali,
artisti. Da anni Schiano viveva in un forzato e dolente isolamento ma
era disponibile agli incontri: non era più in grado di parlare però
riusciva a comunicare, grazie all’aiuto dell’ex-moglie, Rita Cosma, che
gli è stata sempre vicino. I funerali si svolgeranno domani (ore 10)
nella chiesa degli artisti, in piazza del Popolo. Che la situazione
fosse ormai grave si sapeva ma Mario Schiano (Mariolino, come lo
chiamavano gli amici di vecchia data) era ancora là, sofferente eppure
lucido. Ora la sua morte rende definitivamente orfane più generazioni
di musicisti e di appassionati, i molti che da lui hanno tanto
imparato. Schiano era una persona generosa e solare, dallo
straordinario senso dell’humour e dell’ironia, un affabulatore
affascinante, una mente intuitiva e acuta; ha sofferto molto, in modo
stoico: grande comunicatore, privato della parola dalla malattia ha
dovuto, e in parte voluto, scegliere l’isolamento in cui affrontare una
difficilissima lotta per la vita.
La sua esistenza artistica è stata
appassionata e intensa, trascinante e lucida, vissuta in stretto legame
con i mutamenti sociali e culturali che si sono determinati a partire
dagli anni ’60. Vale parecchio l’opinione espressa a suo tempo da
Giovanna Marini sul freeman partenopeo (nato nel 1933): «riesce
perfettamente in quella sintesi di categorie che oggi fa tanto parlare
gli operatori culturali e musicali in genere: in Schiano la musica e la
poesia sono perfettamente unite, l’una provoca immediatamente l’altra
(…) È per questo che dobbiamo rendere atto a Schiano di averci
anticipato tutti di parecchie leghe, il tutto senza parere, da
musicista, poeta, da raffinato e intelligente ‘uomo meridionale quale
è’» (dal bel libro-intervista di Pierpaolo Faggiano, Un cielo di
stelle, manifestolibri 2003).
Il jazzista (sax alto e soprano ma
amava anche suonare l’organo e cantare), l’agitatore e operatore
culturale ha, in effetti, giocato sempre d’anticipo, individuando con
intuito e raziocinio tendenze e persone, rispondendo a un’esigenza
profonda di creare musica che avesse senso politico, nel significato
più ampio del termine. Quando l’Italia jazzistica era ancora
impantanata nell’imitazione del jazz californiano o nel dixieland
revival, Mario Schiano tirò fuori il Gruppo Romano Free Jazz: era il
1966, insieme a lui c’erano Giancarlo Schiaffini, Marcello Melis e
Franco Pecori (Ecstatic, 1967). Quella formazione fu, con ogni
probabilità, il primo organico free europeo e, insieme a Giorgio
Gaslini, Schiano sprovincializzò il jazz nostrano, dimostrando come si
potesse produrre musica di ispirazione afroamericana senza dover
imitare i solisti americani. In un certo senso il sassofonista anticipò
il ’68 e, in ogni caso, fu tra coloro che più convintamente si
confrontarono con movimenti giovanili e nuove produzioni artistiche,
dal Living Theatre al cinema del gruppo Fluxus; nel 1969 firmò la
colonna sonora del film-documentario di Ugo Gregoretti Apollon.
Negli
anni ’70 in cui si mettevano in discussione linguaggi e certezze, dando
spazio a una frenetica ansia di conoscere, il jazzista si interessò di
musica popolare (Sud, 1973; Perdas de Fogu con Melis, 1975), entrò in
contatto con quella contemporanea (Domenico Guaccero ed Alessandro
Sbordoni, DeDé, 1977), scoprì e valorizzò jazzisti che poi avrebbero
costituito le colonne portanti del nuovo jazz italiano. Dalle cantine
del Folkstudio di Giancarlo Cesaroni al palcoscenico di
Controindicazioni, Schiano ha lanciato, fra i tanti, Bruno Tommaso,
Tommaso Vittorini Eugenio Colombo, Maurizio Giammarco, Massimo Urbani,
Danilo Terenzi, Sebi Tramontana, Pasquale Innarella. Nel decennio del
conservatorismo sonoro, del neo-hard-bop fu il jazzista partenopeo a
ridar vigore alle Sedute di improvvisatori di Controindicazioni,
riprendendo il nome da un controfestival inventato nel 1975 a Penne e
riproposto a Roma dal 1988. Luogo fisico, sonoro e intellettuale, la
manifestazione ha rilanciato il jazz d’avanguardia e fatto conoscere
artisti di mezz’Europa, con cui Schiano ha inciso. Amava molto gli
incontri sonori e di essi restano tracce discografiche dal trio Ganelin
a Paul Rutherford, da Peter Kowald ad Han Bennink. Si deve un po’ anche
a Controindicazioni la nascita dell’Italian Instabile Orchestra (1990),
formazione che ha portato nel mondo tre generazioni di freeman con
successi testimoniati dai cd per Leo records, Ecm ed Enja. Il posto di
Mario Schiano è ora definitivamente vuoto nell’Italian Instabile
Orchestra che suonerà il 29 maggio a Reggio Calabria e aveva già in
programma un arrangiamento di Sud, memorabile sua pagina del 1973
intrisa di poesia, critica, amore, ironia. Nella musica e nella
memoria, individuale e collettiva, Mario Schiano non morirà.